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Solo un Hallelujah per Leonard Cohen e Jeff Buckley

La canzone di Cohen che i discografici neanche volevano diventa la sofferta "Hallelujah" di Jeff Buckley, destinato a non conoscerne l'enorme successo mondiale.

La canzone di Cohen che i discografici neanche volevano diventa la sofferta “Hallelujah” di Jeff Buckley, destinato a non conoscerne mai l’enorme successo.

I numeri sono impressionanti. “Hallelujah” è stata interpretata da centinaia di performer in tutto il mondo, inserita in decine di colonne sonore tra cinema e tv, citata in tutte le salse dai matrimoni ai funerali. Si parla di milioni di cd venduti per una canzone riconosciuta spesso fra le più belle della storia, ma – come avviene a volte – sono in molti a non conoscere nemmeno l’identità dell’autore.

Leonard Cohen

Leonard Cohen, 1988 Photo by Roland GodefroyCC BY 3.0

Quando Leonard Cohen pubblica l’album Various Positions nel 1984 è un personaggio venerato per lo spessore e l’eleganza inusuale delle sue canzoni. La sua carriera di songwriter è partita nel 1967 quando, a 33 anni, ha deciso di mettere da parte il lavoro di scrittore e poeta, per dedicarsi alla musica. La delicata “Suzanne” è il primo successo, anticipata dall’incisione di Judy Collins e riproposta poi in italiano nella splendida versione di Fabrizio De Andrè nel 1972.

Cohen è un outsider per natura e formazione artistica, appassionato studioso della religiosità, intrigato profondamente dai meandri dello spirito umano, rispettato e amato da Bob Dylan e tutti i songwriter contemporanei. Quando scrive “Hallelujah”, secondo le sue dichiarazioni, rimane sul pavimento del bagno nel suo hotel per ore fino a soddisfare l’insopprimibile bisogno creativo che lo tormenta.

Il risultato sono circa 80 strofe della canzone, ispirata almeno in parte a personaggi biblici come David, il re confuso, Sansone e Dalila, di cui solo quattro vengono registrate nell’album, salvo proporre diverse versioni del testo nelle successive esibizioni live.
La caratteristica voce baritonale di Cohen recita le parole oscillando tra scarna solennità ed enfasi, mentre la conclusione di ogni strofa è affidata a un trionfale coro gospel.

L’attenzione sulla canzone viene attirata da una prima cover, quella incisa da John Cale (fondatore dei Velvet Underground con Lou Reed) in un album tributo a Cohen del 1991, lasciata all’essenzialità di pianoforte e voce.
È questa, anche per quanto riguarda la diversa scelta di strofe, quella cui si rifà Jeff Buckley per inserirla nel suo album di esordio, Grace, nel 1994.

Jeff è figlio di Tim Buckley, songwriter morto giovanissimo di overdose senza arrivare al successo. Dal padre eredita la capacità di spaziare fra i generi e l’istinto per una vocalità libera e a volte anche sperimentale, ma passa i primi anni della sua carriera lavorando per conto-terzi come chitarrista session-man.

La sua familiarità con lo strumento è evidente nell’intro di “Hallelujah”, dove si muove sulla tastiera alla ricerca di quel segreto accordo citato nel testo contrapponendo i suoni cristallini della sua Telecaster a quelli gravi del pianoforte originale. La formula è tutta qui, una chitarra sognante, eterea e una voce quasi priva di riverbero che sussurra delicatamente le parole.

Jeff Buckley

Se Cohen è solenne o enfatico (vedi anche le versioni live), ma comunque relativamente distaccato, Buckley è straziante nella sua disarmante semplicità, messo a nudo davanti al microfono nell’esporre la sofferenza e il conflitto suggeriti da un testo che – come pochi altri – si presta a interpretazioni diversificate.

Jeff muore per un incidente nel 1997, mentre la canzone viene proiettata verso il successo nella versione di Cale grazie all’inserimento in una scena chiave del cartoon Shrek, blockbuster cinematografico del 2001.
La successiva pubblicazione del singolo di Buckley è il trampolino definitivo verso la diffusione oceanica della canzone, diventata in seguito quasi imbarazzante nella sua onnipresenza.

Leonard Cohen

Photo: Public Domain

Emerso da un lungo ritiro in un monastero zen, Leonard Cohen riprenderà in mano la sua canzone per continuare a riproporla dal vivo fino alla sua scomparsa nel 2016 a 82 anni, ma l’intensa interpretazione del povero Jeff Buckley rimane il banco di confronto per qualsiasi altro interprete, difficilmente replicabile nel perfetto equilibrio tra fragilità e forza espressiva.
Per qualcuno… la perfezione.

And even though it all went wrong
I’ll stand before the Lord of Song
With nothing on my tongue but Hallelujah