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I sintetizzatori, croce e delizia del tastierista

Siamo ormai entrati abbondantemente nel nuovo millennio, e così anche in ambito musicale e sonoro molte cose ci sembrano scontate, come se esistessero da sempre. Ascoltiamo un brano, riusciamo ad identificarne tutti gli strumenti usati, e per ognuno di essi abbiamo una chiara idea, un concetto che li identifica: il pi

Siamo ormai entrati abbondantemente nel nuovo millennio, e così anche in ambito musicale e sonoro molte cose ci sembrano scontate, come se esistessero da sempre.
Ascoltiamo un brano, riusciamo ad identificarne tutti gli strumenti usati, e per ognuno di essi abbiamo una chiara idea, un concetto che li identifica: il pianoforte, la chitarra, la batteria…ma la produzione musicale odierna (diciamo degli ultimi sessant’anni abbondanti) è stata caratterizzata soprattutto dall’avvento di ciò che dopo un ascolto superficiale solitamente cataloghiamo come “strumenti elettronici“.
Ma cosa significa?

La definizione è parecchio vasta e rischia di essere confusionaria, ma in questa sede è opportuno posizionare il focus su una classe di strumenti che è riuscita a ritagliarsi un ruolo preminente in gran parte della discografia mondiale dagli anni Sessanta in poi: i Sintetizzatori, ovvero strumenti capaci di creare timbri partendo dagli elementi basilari del suono percepibile, contrapposti agli strumenti che producono suoni “naturali” (tralasceremo le implicazioni filosofiche su cosa possa o non possa essere un suono naturale).

I sintetizzatori, croce e delizia del tastierista

La mole di un synth modulare vecchio stampo (Keith Emerson docet…)

Un sintetizzatore, quindi, è un apparecchio elettronico il cui scopo è appunto “sintetizzare“, creare nuove sonorità partendo da elementi basilari, prodotti dai propri circuiti. Com’è facile intuire, i primi modelli sperimentali erano dei veri e propri armadi pieni di circuiti e cavi, e solo verso la fine degli anni Sessanta comparvero i primi modelli portatili, grazie soprattutto a due aziende divenute poi celebri: Moog Inc. e ARP Instruments

Durante i primi anni di sperimentazione sui synth (forma abbreviata dell’inglese synthesizer) la ricerca sonora era volta a ricreare sonorità già conosciute come il pianoforte, il basso o i fiati, ma ben presto i più innovativi tastieristi iniziarono ad esplorare queste nuove macchine per ciò che era la loro natura, senza necessariamente usarle per scimmiottare strumenti già esistenti, ed elevandole così al rango di strumenti musicali in piena regola; ad oggi esistono interi macro-generi interamente basati sulle sonorità sintetiche, che sono così diventate di comune fruizione.

I sintetizzatori, croce e delizia del tastierista

Il celebre Mini Moog

Come funziona un sintetizzatore?
Come tutti gli strumenti, ha avuto una grande evoluzione, seppur in un lasso di tempo mediamente molto più ristretto; le tecniche di sintesi sono inoltre molteplici, ma quella che di certo ha avuto più successo è la cosiddetta Sintesi Sottrattiva, ovvero che parte da una fonte sonora complessa e ne sottrae delle componenti per arrivare al risultato desiderato.
Altre tecniche degne di nota sono la Modulazione di Frequenza (utilizzata nei celebri Yamaha DX), la Sintesi Additiva (che somma diverse onde sinusoidali), e la sintesi tramite Campionamento, che in realtà può convivere con le altre sintesi. Per semplicità, porremo per il momento la nostra attenzione solamente sulla Sintesi Sottrattiva.

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Yamaha DX7

Gli elementi principali della catena di sintesi possono essere individuati così:

  • oscillatore:è il punto di partenza, il “luogo” dove viene generato il suononella sua forma primaria, che si occupa di dare il timbro el’intonazione. Spesso sono presenti due o più oscillatori e ognunodi essi può generare diverse forme d’onda sonora (dente di sega,quadra, triangolare, impulsiva, sinusoidale ecc…);
  • filtri:si tratta di “barriere” utilizzate per plasmare la forma d’ondagenerata dall’oscillatore;
  • amplificatore:lo stadio di uscita che si occupa di dare un volume alla formad’onda;
  • generatoridi inviluppo: si tratta di circuiti dedicati alla modifica delsegnale audio nel dominio del tempo, e possono essere applicati adesempio all’intonazione degli oscillatori o alla frequenza di tagliodei filtri, o assegnati ad altri parametri.

L’ordine in cui sono stati elencati i suddetti elementi rispecchia anche il percorso tipico del segnale, dalla sua genesi fino allo stadio di uscita.

I primi esemplari sperimentali, data la loro complessità in rapporto alla tecnologia disponibile all’epoca, erano monofonici, ovvero capaci di suonare una sola nota per volta; questa caratteristica si è protratta anche in seguito, anzi per molti anni è stato un tratto distintivo di questa classe di strumenti (v. ad esempio la maggior parte dei modelli prodotti da Moog).
La “conquista” della polifonia, prima a due, poi quattro, poi sei e otto voci (con svariate declinazioni e varianti, come le 5 voci possibili sul celebre Sequential Circuits Prophet 5) ha di fatto segnato un momento cruciale nell’evoluzione dello strumento: d’ora in poi il sintetista non era più costretto a suonare solo parti di basso, canto, melodie, contrappunti, bensì adesso aveva sotto le mani un vero e proprio strumento armonico, al pari di una chitarra, un pianoforte o una sezione d’archi o di fiati.
Ecco quindi che possiamo vedere la prima grande distinzione all’interno della categoria di sintetizzatori: monofonici contro polifonici, una distinzione tutt’oggi presente nella produzione attuale di strumenti.

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Oberheim Four Voice

Un’altro grande spartiacque nella storia del sintetizzatore si ebbe con l’avvento della tecnologia digitale, all’inizio degli anni ’80.
Se prima di quel periodo i synth erano inequivocabilmente realizzati attraverso circuiti elettrici (condensatori, resistenze, componentistica varia, e successivamente circuiti integrati), e quindi definiti “analogici”, con l’introduzione di schede elettroniche fu possibile creare degli strumenti che non basavano il proprio suono su componenti elettrici ma bensì su “cervelli” elettronici preprogrammati.
Sin da subito la sintesi tramite campionamento si impose, permettendo la realizzazione di veri best seller come la Korg M1 o la Roland D50 (due declinazioni diverse degli stessi concetti), anche se non mancavano produzioni di natura diversa come ad esempio il DX7 di Yamaha, altro campione di vendite.

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Korg M1

Successivamente, la tecnologia digitale ha permesso la riproduzione attraverso modelli matematici di comportamenti non lineari tipici delle macchine analogiche, ovvero tutti gli strumenti che oggi possiamo definire Virtual Analog: Clavia Nord Lead ha aperto la strada, poi seguito da molti altri, sia in campo hardware che, più recentemente, in quello software.

Oggi assistiamo ad un deciso revival della “stagione analogica”, con storici marchi come Moog, DSI (ex Sequential Circuits), Oberheim, Korg, Roland e altri più nuovi, come Arturia, che ripropongono macchine analogiche, ma in realtà il mercato offre una marea di varianti, analogiche, digitali, ibride, hardware, software, e spesso è facile perdersi nei meandri della tecnologia.
Ma tant’è, forse è meglio avere il famoso imbarazzo della scelta, che non avere scelta per niente.