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Jazz On! – Intervista a Ben Wendel

Salve MusicOffili, oggi vi presentiamo una bella intervista al sassofonista Jazz Ben Wendel, un artista in realtà polistrumentista molto conosciuto per la sua militanza nella band nominata ai Grammy Awards "Kneebody"; nato in Canada e poi trasferitosi negli Stati Uniti, Questo ancora giovane musicista ha già percorso

Salve MusicOffili, oggi vi presentiamo una bella intervista al sassofonista Jazz Ben Wendel, un artista in realtà polistrumentista molto conosciuto per la sua militanza nella band nominata ai Grammy Awards “Kneebody”; nato in Canada e poi trasferitosi negli Stati Uniti, Questo ancora giovane musicista ha già percorso un’ottima carriera, collaborando con tantissimi artisti di fama internazionale e vari generi musicali e stili. Dario Trapani, per la rubrica Jazz On, lo ha intervistato per noi, lasciamo quindi subito a loro la parola.MusicOff (Dario): Ciao Ben, partiamo dall’inizio. Qual è la tua storia? Come sei diventato musicista?Ben Wendel: Sono cresciuto a Los Angeles, praticamente in una famiglia di musicisti classici. Mia mamma era cantante d’opera, mio zio pianista, mia nonna suonava il flauto con Toscanini ed io il saxofono dai dieci anni in poi. Il fagotto arrivò dopo, quando al liceo chiesi di entrare nell’orchestra della scuola, quello era lo strumento che serviva.
Suonavo musica classica, iniziavo ad ascoltare le cassette di Jazz che mi passava il mio vicino di casa, e seguivo ogni giorno KDAY radio, che passava hip hop 24 ore al giorno, niente pubblicità. Era un periodo fichissimo per l’hip hop [inizio ’90, NdR].Mi trasferii a New York prima dei vent’anni, studiai alla Eastman School con Ralph Alessi e Michael Kane, ma presto mi dovetti fermare per problemi di salute: collasso polmonare. Oggi è una cosa curabilissima, nonostante il nome suoni minaccioso [ride, NdR], ma dopo l’intervento dovetti fermarmi per un anno, lontano da scuola, di nuovo a L.A. Proprio qui, in California, una volta guarito, ebbi la fortuna di essere presentato a Billy Higgins, che presto diventò il più grande mentore della mia vita. Billy aveva messo in piedi questa “All star youth band” con me e altri ragazzi e ci invitava a suonare al World Stage club. Per un anno lui fu il batterista con cui suonai, praticamente sempre. Con il suo spirito positivo, poteva introdurti alla gioia di suonare Jazz, sul palco con lui si provava la sensazione di un abbraccio gigante. Impossibile suonare male se lui era alla batteria, letteralmente. Mi insegnò tantissimo senza mai darmi un consiglio o fare alcuna osservazione.
Era un jazzista, ovviamente, ma quando suonava si percepiva solo musica, questa è una delle cose più importanti che mi porto dietro da quella esperienza. Ok, sono sassofonista e suono musica improvvisata, ma seguo un sacco di generi diversi, e tutto ciò che ascolto influenza il mio modo di suonare; è questo per me lo spirito del Jazz. Una volta qualcuno disse: “Il Jazz è la musica che i jazzisti suonano nell’epoca in cui vivono.“Io sono cresciuto con elettronica e hip hop ed ogni cosa che suono è influenzata dal presente. Dopo questo periodo continuai a suonare a LA, iniziai a fare sempre più tour, e alla fine mi traferii a NY, perchè viaggiare da lì all’ Europa era molto più comodo. Ormai sto lì da 5 anni. Poi vabbè, si sa che la scena musicale newyorkese è incredibile.MO: Mi chiedo come i musicisti che stando lì diventano super impegnati, trovino tempo e concentrazione necessari a fare pratica. New York è una città difficile. So che tu hai sviluppato un tuo metodo, e che hai una routine particolare…BW: È importante trovare il proprio metodo secondo me. Io sono sempre stato appassionato di neuroscienze, leggo riviste e articoli, e ho scoperto che il miglior modo per impirimere nozioni nella memoria a lungo termine sia studiare ogni singolo argomento a fasi alterne, lasciando trascorrere un periodo di tempo più o meno lungo prima di tornare su di esso, e ripetendo il processo più volte.
Mi spiego, scrivo in continuazione molti pattern, figurazioni e piccoli frammenti melodici che mi interessano. Li estrapolo dai dischi, dalle parti, dalla mia stessa pratica e li scrivo su un quaderno. Ogni giorno ne prendo alcuni e li studio e, una volta studiati, lascio trascorrere del tempo prima di tornare a praticarli. Ho realizzato che mi servono dalle quattro alle sei ripetizioni perchè il pattern entri a far parte del mio linguaggio.
Possono passare giorni, settimane, e poi torno sulle stesse linee incrementando la difficolta, modulandole in 12 tonalità, su tutta l’estensione, nel registro altissimo etc… e così facendo miglioro l’abilità a trasporre, la tecnica, e creo/espando il mio linguaggio in un colpo solo, attivando e riattivando la mia memoria su un singolo argomento a intermittenza.. Cambio figurazioni ogni giorno, e su di me sembra funzionare molto bene.Poi è vero, c’è sempre un sacco di lavoro “amministrativo” da fare nella vita di ogni musicista, e ti porta via tempo per la pratica. Su questo però, sono abbastanza militare, fare pratica viene prima di ogni altra cosa. Anni fa ho capito che se ho dieci cose da fare e studiare è una di quelle, saltando lo studio mi sento malissimo. Se invece faccio pratica e poi mi concentro sul resto sto benissimo. Poi, anche se non facessi nessuna delle altre cose, ma almeno studiassi, starei comunque meglio [ride, NdR].Sfrutto i periodi liberi per organizzare session di studio con amici musicisti. Tipo, il mese scorso ho proposto a Gerald Clayton un giorno di full immersion, cercando di imparare un po’ di pezzi nuovi, io e lui. L’abbiamo fatto ed è stato fighissimo!MO: Posso chiederti quali pezzi?BW: Mmmh, fammici pensare… Abbiamo suonato Spring is here, Segment, Speak like a child, Cheryl [la canta, NdR], ed altre… Una volta imparate, le abbiamo trasportate in tutte le tonalità, ci siamo messi alla prova, ma ci siamo divertiti alla fine!MO: E invece che ci dici sulla composizione? Come scrivi?BW: Mah, in genere devo avere progetti per cui scrivere, immaginare che sarà per qualcuno in particolare. Ora ho in ballo un progetto piuttosto ambizioso, per cui scriverò dodici duetti per me e dodici musicisti diversi.MO: Sono curioso di sapere chi siano!BW: Alcuni li posso dire: Aaron Parks, Mark Turner, Eric Harland, Julian Lage, Taylor Egisti, Matt Brewer ed altri ancora. Praticamente, scrivo pezzi dedicati a ognuno di loro, pensando alle cose che amo del loro modo di suonare. Funziona così, dal momento che ho il suono di qualcuno in testa, mi concentro e inizio a “sentire” la musica nella mia testa.Col mio quartetto (Gerlad Clayton, Joe Sanders, Henry Cole) ho organizzato un tour in Europa in cui si è suonato molto. Volevo sentire come avremmo suonato insieme spontaneamente, poi, una volta tornato a casa, non ho fatto altro che scrivere la musica che quel gruppo mi aveva ispirato, ed è nato il mio terzo album solista.Poi ogni pezzo può nascere al piano come da una linea che suono sul mio strumento, o da un ritmo di batteria che canto e registro nel mio iPhone. Posso partire anche solo da un concetto, qualsiasi cosa. Cerco sempre di imitare i maestri della composizione della musica classica, che scrivevano musica pazzesca usando pochissimo materiale. Metto poche idee nei pezzi, cercando di espanderle in più direzioni possibili per creare l’intera struttura del brano. Per me è importante che ogni pezzo descriva un singolo mood, dall’inizio alla fine, e non tipo mille cose diverse messe insieme. Come il movimento di una composizione classica, appunto.MO: A proposito del lavoro in studio, spesso ti avvali ti tecniche di produzione sui tuoi dischi. Sovraincidi, applichi filtri ed effetti ai suoni. Che relazione c’è secondo te fra la musica improvvisata e la produzione in studio? Non trovi sia quasi un tabù per alcuni jazzisti?BW: Domanda interessante. Sicuramente nel Jazz la musica è fitta di informazioni per via dell’improvvisazione e spesso non sembra necessario aggiungere o modificare nulla a livello sonoro. Tuttavia per me non dovrebbero esserci regole. Sentire una band dalle cuffie o dal vivo sono esperienze totalmente differenti, quindi non credo che un disco debba per forza limitarsi a cogliere ed imitare il suono della band dal vivo.
Le produzioni Jazz in genere si concentrano sul catturare un suono quanto più vicino alla sensazione del live, ma è impossibile avere la stessa energia. Non succede, è un’altra cosa. Piuttosto è bello sfruttare le potenzialità delle cose che possono accadere solo in studio, tipo rendere la musica più orchestrale suonando più strumenti sullo stesso pezzo. È sempre lo stesso pezzo, ma con più cose che succedono al suo interno.Prova ad ascoltare Bon Iver o Flying Lotus: a quelli non interessa se la musica è 100% acustica o cose così, loro semplicemente usano qualsiasi strumento a loro disposizione per far sì che la musica abbia un suono figo e provocativo!MO: Cinque dischi belli che ti vengono in mente?BW:

  • Charles Mingus – Black Sint and the Sinner Lady
  • Flying Lotus – Untill the quiet comes
  • Miles Davis – Qiuet Nights
  • Nate Wood – Fall
  • Wyi Oak – Shriek

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