HomeMusica e CulturaDischi & LibriLa Beat Generation in 67 poesie
beat generation

La Beat Generation in 67 poesie

Immagini ed immaginari collettivi, musica e poesia, strade percorse e solitudini dimenticate. Tra fare e non fare, ritrovare ciò che abbiamo perso o, forse, non abbiamo mai avuto.

Immagini

Sono molte le immagini che confluiscono nella mia mente, ora, mentre scrivo. La prima è quella di una tavola da surf. La seconda è quella di un film che ho amato molto. “Un mercoledì da leoni” ambientato negli anni ’60. 

Molti dei poeti che citerò hanno scritto poesie in quegli anni. Li chiamavano la “Beat Generation”. Scrivevano versi liberi, sciolti, come volevano essere loro, liberi, sciolti, svincolati da un mondo folle che si andava costruendo. 

Quando lessi per la prima volta queste poesie avevo 16 anni… mi dicono che ne sono passati trenta da quei miei 16 anni. A sedici anni puoi sognare di essere come loro. Puoi immaginarti come loro. A sedici anni ti è concesso sognare per voler essere ciò che vuoi. 

Non facevo surf (in pianura padana era abbastanza difficile). Iniziavo a strimpellare qualche nota sulla chitarra. Leggevo parole che sembravano incomprensibili e che, forse, dopo trenta anni lo sono ancora. 

Vi propongo un libro, tra molte raccolte di poesie che potete trovare dei poeti della Beat Generation, vi propongo la raccolta in mio possesso, quella che ho letto per tanto tempo, quella che ancora tengo in vista, per gli ospiti, perché si sappia, che a sedici anni sognavo una vita diversa. Un libro è anche questo, uno specchio profondo, dove guardare ed immaginare ciò che non siamo, ciò che saremmo potuti essere. 

beat generation mondadori

Poesia e blues

La poesia ha una musicalità. La musica ha una poeticità. Ogni arte porta con se qualcosa delle sue sorelle. Tutte nascono da una necessità, da un motto dello spirito che si incammina verso la ricerca. Ricerca del vero, ricerca del bello, ricerca di se stessi. Non importa quale sia il fine, poiché il fine ultimo è la ricerca, è il mettersi in cammino.

Uno dei romanzi culto di queste generazioni, ed anche di quelle future, sicuramente è “Sulla strada” di Jack Kerouac, ma come lui, molti altri autori e poeti si sono messi in cammino, hanno cercato la loro verità. Non spetta a noi dire se l’abbiano trovata. Quello che possiamo fare è godere della lettura delle loro storie, dei loro blues. 

Molte poesie hanno preso l’andamento del blues, la struttura metrica di un genere musicale che è nato nelle stesse terre che questi poeti hanno vissuto e percorso. Con il tempo si è modificata l’intenzione del blues, ciò che è rimasto è l’etimologia del suo nome, il “lamento”.
Lamento non è solo una voce straziata che si trascina lentamente per accompagnare la raccolta del cotone nei campi, non è solo la voce dello schiavo. Il lamento diventa la voce interiore della propria esistenza che ha la necessità di uscire, di emergere dal fondo di noi stessi.

Così blues diventano i componimenti poetici di un’intera generazione, che si accordano alle battute della struttura metrica della canzone, che cercano di battere lo stesso ritmo, di avere la stessa cadenza, che vogliono raccontare il proprio “lamento”. 

Jack Kerouac
Jack Kerouac – Foto di Tom Palumbo (CC BY-SA 2.0)

Ma il lamento, la narrazione del proprio dolore, non può restare legata solo ed esclusivamente al blues. Ogni generazione ha narrato il proprio lamento, ne ha fatto musica, ha trovato un suo linguaggio. Ed è la radice che amo analizzare, non il modo in cui esso viene attuato. Negli anni 80 e 90 il linguaggio che rappresentava il lamento, per i neri afroamericani si è trasformato, è diventato il Rap. Oggi è la Trap. Domani non lo sappiamo, ma dobbiamo guardare al futuro con speranza e curiosità, senza chiuderci in bolle e compartimenti stagni.  

In questa raccolta di poesie, che comprende diversi autori, da Allen Ginsberg, a Jack Kerouac, da Lawrence Ferlinghetti a Bob Kaufman, il viaggio è lungo e si muove dalla est coast alla west coast degli Stati Uniti. Sarebbe interessante poterle approfondire tutte, ma non è ovviamente possibile. Ne ho scelta una, quella che amo maggiormente e che oggi, mi offre l’opportunità di riflettere, sotto un immaginario cielo stellato, su alcuni temi che vorrei offrirvi. 

Solitudine Messicana

La poesia che ho scelto si intitola “Solitudine messicana”. Il titolo offre già uno spunto di riflessione intenso: la solitudine ed il Messico. La solitudine ed un paese che confina con la California e che si prolunga in una penisola stretta e lunga, affacciata sull’oceano Pacifico, un luogo di fuga, un’evasione, una forma di libertà. Ma la solitudine non è sinonimo di libertà. Forse è più paura e fuga.
«E sono uno straniero infelice – contento di scappare per le strade del Messico». Inizia così Kerouac. Solitudine, fuga, felicità, forse reale, forse apparente, non ci è dato saperlo.

Di sicuro vi è un desiderio, vi è un viaggio ed un percorso, quasi iniziatico, catartico, verso qualcosa, verso qualcuno. Seguono molte immagini, visioni, associazioni libere. Un crescendo in una serie di dubbi, di contrari e contrapposizioni. «Se mi ubriaco mi viene sete». «Se mi ricordo sono bugiardo». 

Così proseguendo, fino all’ultimo verso, di questa serie di contrari e contrapposizioni: «Se non faccio niente – niente fa». Sembra un abbandono, un cedere al non fare, al lasciarsi andare. Niente, di contro, diviene un’entità in grado di fare, di agire, di riempire il vuoto lasciato dal non fare. In una serie di azioni, visioni, associazioni ed immagini in cui tutta la poesia ci ha guidato, l’ultimo verso si abbandona al non fare, al niente. 

La route 66
La route 66

Trovo meravigliosa questa trasformazione rapida che ci guida dal non fare alla possibilità che il niente, divenga un’entità capace di fare, di realizzare. Anche nell’abbandono, nella rinuncia all’azione, l’agire non mio, ma di altro fa, costruisce, trasforma.
Sembra ci sia un’accettazione di ciò che arriva, di ciò che avviene, al di fuori del nostro fare, al di fuori della nostra volontà che emerge da parte dell’autore. Keruac sembra volerci dire “ho provato tutto, non mi resta che provare niente”. 

Se ci penso bene, se ritorno ai miei 16 anni, da allora ho provato molto, non tutto. Ho fatto molto, non tutto, ma se mi guardo indietro sento e provo, con una percezione lieve di smarrimento che, spesso, ha agito non solo ciò che ho fatto, ma anche il niente, ciò che ho lasciato non fatto, a volte incompiuto, a volte fuori dalla porta.
Ha agito un respiro tra le parole, un silenzio tra le urla, il buio e non la luce, una pausa tra le note.  

Buona lettura!