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Metamorfosi novecentesca: Igor Stravinskij

L'eclettico Stravinskij non ha e non dà tregua alcuna, immergendosi sfrontatamente in seno all'impressione di Vuoto pessimistico, preannunciato dagli Impressionisti (e da Debussy) e concretizzato dagli Espressionisti, del suo tempo "barbarico". Barbarico poiché legato alla Necessità e non al Gioco, vera utopica meta

L’eclettico Stravinskij non ha e non dà tregua alcuna, immergendosi sfrontatamente in seno all’impressione di Vuoto pessimistico, preannunciato dagli Impressionisti (e da Debussy) e concretizzato dagli Espressionisti, del suo tempo “barbarico”.

Barbarico poiché legato alla Necessità e non al Gioco, vera utopica meta della civiltà. Il carattere orridamente desolante di “orfanismo” in cui si trova l’uomo essere mortale, affrancato da un messia e libero di aspirare all’Infinito, sbuca dalle pagine tremende dei Canti di Maldoror, oltre che dalla Poesia baudelairien scesa in Terra a raccogliere la sua “aureola”, quarant’anni prima dell’inizio di questo secolo d’incarnazione deistica, a dirla nietzscheanamente (da ricordare l’Alberto Savinio della Fine dei modelli.
Stravinskij non tradisce! S’avvia verso una nuova fase: la “formalista”.

L’instancabile Djaghilev si appresta a raccogliere spartiti sparsi di Cimarosa, Scarlatti e Pergolesi, e Igor li riassembla creando un balletto con arrangiamenti di musiche, attribuite a Pergolesi, arricchite da un personale timbro orchestrale. Un inventato pastiche della maschera italiana Pulcinella (1919) corrispettivo del Petrouschka russo.

Il processo compositivo è di tipo “oggettivistico” basato sul riadattamento drammatico o coreutico di musica preesistente e sulla spersonalizzazione del musicista. Il simbolo di una poetica antiromantica del “bello”, ovvero la caduta di credulità tolemaica dell’artista ispirato idealmente, senza voluta ostentazione del “brutto” anzi, libertà inventiva e redenzione della classicità, contrappuntistica soprattutto, sono i nuovi ideali: Bach.

Questo Novecento non esaurisce le sue cartucce da cacciatore incallito e la neonata Società Internazionale per la Musica Contemporanea (SIMC), un’utopica Lega delle Nazioni, spiazzò l’opinione pubblica per la bizzarra alleanza tra Les Six e la Seconda Scuola Viennese. Queste false apparenze condussero la SIMC a dividersi tra due diverse strade lontane, ma non ignorantesi, da un lato Schönberg “il faustiano” e dall’altro “il metamorfico” Stravinskij.

La polarizzazione, ossia le forze divergenti, artistica della Filosofia della Musica Moderna di Theodor Adorno conduce l’arte dissoluta del Novecento a cercare nuove vie di espiazione dal caos contemporaneo. La ricerca di unità primigenia e d’inventiva visionaria col recupero del mito in Joyce e T. S. Eliot; la ricerca di espressionismo interiore in pittura e cinema; la rottura col linguaggio musicale wagneriano, sono emblemi di un’angoscia dell’uomo moderno che si ripercuote sino all’oggi. 

Metamorfosi novecentesca: Igor Stravinskij

È l’ora che “l’inverno del nostro scontento si tramuti in luminosa estate grazie a questo sole” non così chiaro del Modernismo, a dirla shakespearianamente, a cui non resta che una desolante e cosciente registrazione dell’inessenziale esperienza di vita non accumulabile: choccante!

La smania creativa di Stravinskij, attenuatasi per un po’ di tempo, non si spense affatto anzi, dall’alto del suo snobismo, tirò fuori dal cilindro non giochi di prestigio ma un Octet (1923): “un oggetto musicale con una forma influenzata dal materiale musicale… una composizione musicale basata su elementi oggettivi autosufficienti e lontani da qualsiasi sentimentalismo“. Era la sua “nuova oggettività” aspirata da Cocteau per la danza ed echeggiante l’estetismo di O. Wilde: “l’arte non esprime altro che se stessa“.

L’Octet naviga presso l’isola abbandonata della forma-sonata, tra i meandri del conflitto fra legni e ottoni dall’andamento regolare e sincopato. Gli otto strumenti a fiato, divisi in due gruppi,  emettono suoni dalla provenienza indistinta e significano il recupero della polifonia strumentale del Cinquecento veneziano di Gabrieli, ma anche l’approdo verso sonorità Jazz.

Questo Neoclassicismo (pregustato dall’Histoire du soldat) s’affermerà in Europa e verrà attraversato da svariati artisti dominando sino alla seconda metà del secolo, ma saranno in molti a nutrire dubbi su questa svolta di Stravinskij.

Uno degli ultimi attracchi artistici dell’esule russo, nel porto religioso di sua santità “benemerita” Conversione, si ebbe in seguito a un improvviso ascesso alla mano destra, prima di un concerto al festival della SIMC che doveva dirigere in prima persona. Recatosi in chiesa in aiuto del soccorso divino, chiese la grazia e miracolo fu.

E venne una trilogia di opere-oratorie solenni di moda in quegli anni: Oedipus Rex, Apollon Musagète e la Sinfonia dei Salmi, la triade spirituale. Tutta l’arte aveva bisogno di spiritualità, di sacralità per non lasciarsi abbattere dal declino morale, da una fede dispersa, deserta.

Probabilmente questo mutamento di Stravinskij è sintomatico di un disagio profondo di perdita d’identità dinanzi ai tempi moderni, e alla fin della fiera lui come altri si rivolsero reazionariamente alle poche forme promosse dall’universalismo musicale della filosofia tedesca, per opporsi al mostro apocalittico: Modernità.

Quest’epidemia senza cura perseguita senza abbandonare l’individuo, diffondendosi preminentemente nel Nord Europa, presso quei labirintici boschi interiori di un altro disagiato novecentesco, rispondente al nome di Jean Sibelius, protagonista del prossimo appuntamento.

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