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Il fenomeno Monkees

Los Angeles, California: al primo posto delle classifiche americane schizza More Of The Monkees, secondo album del quartetto "teen-age pop" per eccellenza.

The Monkees, le scimmie, sono in realtà Michael Nesmith, Micky Dolenz, Davy Jones e Peter Tork: quattro ventenni che diventano protagonisti di una fiction televisiva in cui, appunto, interpretano il ruolo dei membri di una rock band.

Finanziati da Bob Rafelson e Bert Schneider (futuri producer del cult movie Easy Rider) e diretti musicalmente da Don Kirshner, i Monkees sono la classica produzione prefabbricata: non c’è nulla di loro, se non le facce e (ogni tanto) le voci. Il resto è opera dei migliori musicisti e registi della “Città degli Angeli”.

Ma i Monkees, nelle lunghe pause di produzione dei telefilm (che per almeno tre anni godono di un successo incredibile) affilano le loro capacità tecniche. 
Non solo diventano attori spigliati ma pure discreti musicisti, come dimostreranno le future carriere come già fanno notare proprio in More Of The Monkees nel quale spicca la hit epocale “I’m A Believer“, che esce a insaputa del gruppo provocandone la rabbiosa reazione.

Scherniti dalla critica (che, li soprannomina “Prefab 4”, i 4 prefabbricati, giocando sul nomignolo “Fab 4” dato invece ai Favolosi Quattro scarafaggi di Liverpool) i Monkees proprio dai Beatles ricevono invece gratificazione e amicizia. Quando si recano in Inghilterra, vengono invitati alle blindatissime session del Sgt. Pepper’s a Abbey Road e, addirittura, John Lennon paragona il loro humor a quello dei Fratelli Marx.

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