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Leóš Janáček, d’un candido rosso sangue

Hukvaldy è un piccolo e tranquillo villaggio situato nell’estremo est della Repubblica Ceca, sorto ai piedi di quello che fu il maestoso castello di Hrad Hukvaldy. Qui il 3 luglio del 1854 nacque Leóš Janáček, protagonista di questa nostra nuova intromissione nell’Est europeo primo-novecentesco. La crisi da cu

Hukvaldy è un piccolo e tranquillo villaggio situato nell’estremo est della Repubblica Ceca, sorto ai piedi di quello che fu il maestoso castello di Hrad Hukvaldy. Qui il 3 luglio del 1854 nacque Leóš Janáček, protagonista di questa nostra nuova intromissione nell’Est europeo primo-novecentesco.

La crisi da cui prese il via il movimento musicale del Novecento, divampò nello stesso triangolo mitteleuropeo in cui il linguaggio romantico aveva trovato le proprie radici. Le nazioni “periferiche” correvano il rischio di rimanere relegate a ruolo d’osservazione del nuovo fenomeno e, così come era stato per la tradizione romantica, di doversi poi adattare ad un cultura sviluppata e maturata in altri paesi.
La Repubblica Ceca, così come l’Ungheria, erano sottoposte a dominazione asburgica, ma la zona Ceca (Moravia e Boemia in particolare), subiva una scomoda posizione di soggezione rispetto agli ungheresi che godevano invece di una particolare autonomia dall’imperatore.

Leóš Janáček, d'un candido rosso sangue

Nei paesi “periferici”, dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Venti del Novecento, si poté assistere al ribollire di movimenti progressisti dalla duplice aspirazione: una via più “nazionalistica”, richiamante la cultura alle origini nazionali e forte di un rifiuto delle culture dominanti, ed una via più “esterofila” volta all’inserimento nel vivo della cultura europea nel tentativo di ovviare al provincialismo e all’arretratezza.

Anche in campo musicale il rinnovamento linguistico e culturale passò attraverso l’uno e l’altro di questi poli” (1). Fra i nomi della corrente “esterofila” il più importante e degno di nota è sicuramente quello di Karol Szymanowski, che si adoperò nell’aggiornamento linguistico-musicale tentando con grandi sforzi di sprovincializzare la cultura musicale polacca.
Ciò che interessa questo nostro appuntamento è però il filone “inverso” rispetto a quello di Szymanowski, orientamento che andò alla ricerca di un linguaggio originale che ponesse le proprie radici nel sostrato della cultura popolare nazionale. L’ungherese Béla Bartok e il ceco Leóš Janáček sono indubbiamente i maggiori esponenti di questa via di sperimentazione compositiva.

Figlio di un kantor (maestro e insegnante di musica), Janáček maturò il proprio stile nell’ambito dei generi vocali, mostrando fin dalle prime composizioni elementi riconducibili alla tradizione canora popolare. Fu abbagliato dalle sonorità di strada del proprio villaggio natale in un ritorno anni dopo la sua permanenza in città come Brno, Praga, Lipsia e Vienna. L’orecchio fertile di Leóš fu rapito dai movimenti, dalla furia, le urla e la concitazione dei musicisti ambulanti.

Egli volle assimilare la musica rurale nella sua brutale naturalezza, esattamente come i contadini di Van Gogh erano vestiti per il lavoro e non per la festa. Leóš Janáček si dedicò allo studio e trascrizione della musica popolare quasi quindici anni prima di Bartok, dimostrando grande interesse per le flessioni melodiche intrinseche al linguaggio, che avrebbe voluto addirittura veder “riunite e catalogate in una specie di dizionario della lingua ceca” (2).
Sia Bartok che Janáček interiorizzarono il motivo popolare che divenne così fondamento di un linguaggio costruito ed immerso in un universo rurale. Entrambi esplosero in momenti cronologicamente distanti, Leóš produsse i suoi lavori più significativi nel primo trentennio del XX, dopo aver subito in gioventù forti gli influssi romantici di compositori come Antonin Dvorak.

Il processo d’immersione nel popolare di Leóš Janáček si può datare dal 1890, anno dell’opera Danze lachiane, al 1903, anno di presentazione di “Jenufa“, indubbio capolavoro del compositore e landmark definitivo per l’identificazione della “via popolare”, o realista, nelle opere di Janáček.

Jenufa è una storia aspra come il sapore della neve sporca di terra. Ambientata in un paesino della Slovacchia morava, è una storia d’amore, di sofferenza e infanticidio. In un insolito triangolo amoroso fatto dei protagonisti Jenufa (l’amata), Števa (colui che ama l’apparenza e gode d’amore) e il fratellastro Laca (colui che ama con il cuore e non è ricambiato), si aggiunge anche la figura di burattinaia di Kostelnicka (lei che compie l’infanticidio). Dal ritorno dalla guerra Števa scopre Jenufa incinta ma non vuole saperne del matrimonio ed in uno scatto d’ira la sfregia sul volto. Jenufa si nasconde dal disonore con il figlio ma Števa non accetterà la bruttezza provocata da lui stesso sul volto di Jenufa.

Sarà Laca ad accogliere la ragazza con amore anche se sfregiata, unico elemento a distogliere anche Laca dal matrimonio sarà il figlio del fratellastro Števa. Kostelnicka ucciderà il bambino così che finalmente Laca e Jenufa si sposino, ma anche questa colpa sarà perdonata da Jenufa e Laca, campione di un amore sincero, che resterà al fianco della ragazza anche oltre la chiusura del sipario. Quando Jenufa dice a Laca di andare, dopo il ritrovamento del cadavere del bambino sotto il ghiaccio, l’orchestra si sofferma su un accordo di Do maggiore, esplorandone ogni estremità. L’opera si chiude infine, con Laca a cantare la propria devozione per Jenufa, su un apertura solare e tonale.

Come avvenne per “Pelleas et Melisande” di Debussy e per “Salome” di Strauss, anche per Jenufa il testo in prosa è musicato senza modifiche, la melodia è spesso frammentaria e tormentata così com’è la parlata comune. Sono proprio gli sviluppi melodici a tracciare i lineamenti dei personaggi, l’austerità di Kostelnicka è fatta di frasi saltellanti e brusche, il candore di Jenufa di melodie più pacate e timide. In Jenufa si ritrova chiaro il tratto fondamentale della vocalità di Janáček.

Dal linguaggio verbale si estrae l’espressione del dramma poi tradotta in musica. La dimensione del tempo si evolve con la situazione drammatica, in un’unione estremamente realistica di tempo musicale e tempo psicologico-drammatico. Nell’opera si ritrovano alcuni motivi drammatici che diverranno fondanti nella drammaturgia del compositore.

La figura della donna, sia come donna autoritaria e possessiva (Kostelnicka), sia come femmina scatenatrice di passioni violente (Jenufa); l’immagine della morte come liberazione e redenzione, infatti nell’opera l’amore di Laca per Jenufa si realizza solo con l’infanticidio ad opera di Kostelnicka. L’opera è quindi un viaggio nel tormento sentimentale dei personaggi, tormento e tremito che si rifrange nei suoni arcaici e fokloristici. Al momento del superamento del confine ceco nel 1918, i maggiori teatri delle capitali europee omaggiarono l’opera con grandi applausi.

Il termine solare del dramma, raggiunto solo attraverso lo strazio, fu riconosciuta apertura al cielo azzurro, nuova venuta dopo la devastazione della guerra.

Note:
(1) Giorgio Vinay, Il Novecento nell’Europa Orientale e negli Stati Uniti, in Storia della Musica Vol.11, E.D.T. Edizioni Torino, 1991, Torino.
(2) ivi.

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