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Claude Debussy: il linguaggio musicale

Fin dalle primissime righe di questo viaggio s’è messo in chiaro come nel corso del Novecento il concetto di opera musicale, comunemente inteso come “opera teatrale in musica” (Carmen, Nabucco, La Bohème o Guglielmo Tell), andrà progressivamente svanendo per mutare in qualcosa di diverso. Nel periodo d’attiv

Fin dalle primissime righe di questo viaggio s’è messo in chiaro come nel corso del Novecento il concetto di opera musicale, comunemente inteso come “opera teatrale in musica” (Carmen, Nabucco, La Bohème o Guglielmo Tell), andrà progressivamente svanendo per mutare in qualcosa di diverso. Nel periodo d’attività di Debussy, partendo quindi dagli ultimi anni dell’Ottocento, con il compositore poco più che ventenne, il concetto d’opera musicale era ancora chiaro e “vigente”, tanto che lo stesso Debussy si cimentò nel genere, in quanto esperienza della sua crescita musicale.

Indubbiamente sarebbero tanti i lavori di grande interesse provenienti dal periodo tardo ottocentesco di Debussy, ma lo spazio concessoci non permette una panoramica approfondita di ogni opera. Non si vogliono certo dimenticare composizioni come “Rèverie”, “Deux Arabesque” e “Suite Bergamasque”: “Rèverie” introdusse alcuni elementi che torneranno prepotentemente nel Debussy successivo, come la dissonanza di 9a molto cara al compositore, oppure l’annullamento dei tempi forti tramite le legature nel tentativo di raggiungere un’immagine musicale il più rarefatta possibile. “Suite Bergamasque” è, tra quelli citati, il più noto anche ai non addetti ai lavori, grazie al terzo movimento della suite, “Claire de Lune”, divenuto indubbiamente uno dei brani più celebri del compositore.

Uno dei lavori più significativi del periodo giovanile di Debussy è “Prélude à l’après-midi d’un faune”, definibile come poema sinfonico basato su un’egloga di Mallarmé (amico di Debussy), composto tra il 1892 e il 1894. Nella poesia vediamo un fauno, figura mitica, domandarsi quale possa essere il giusto modo per custodire il ricordo, o forse il sogno, di due splendide ninfe. La poesia di Mallarmé si presenta come un campo d’azione perfetto per gli intenti di Debussy, collocata in ambiente pastorale seppur non ben definito, in un’antichità misteriosa e non completamente identificata. La poesia prende vita in un confine indefinito tra realtà, sogno e ricordo, dal quale emergono frammenti di una pulsione erotica arcaica.

Debussy trasformò tale ambientazione in partitura musicale, attraverso espedienti mirati e mai casuali. Il fauno, figura mitica da sempre legata al flauto di pan, è ovviamente rappresentato dal flauto, che apre la partitura con una languida melodia che discende di un tritono per poi risalire. L’armonia generale trova il proprio appoggio su una settima di dominante sul SIb che nell’armonia classica dovrebbe risolvere in MIb, ma così non succede.

L’accordo diviene un organismo autosufficiente, con la sua mancata risoluzione elude le aspettative e simboleggia quella natura sconfinata ed indefinita. Se Wagner sviluppava i temi musicali introdotti, Debussy fa l’esatto opposto, accennando, lasciando decadere e decantare nella mente dell’ascoltatore. Le tonalità sono nebbiose e la visione del fauno è raccolta in sonorità esatonali che delimitano e riaprono l’orizzonte generale. Fondamentale è la sezione di fiati, cui Debussy attribuisce enorme attenzione ed importanza, soprattutto per quanto riguarda il timbro. Apparato melodico e ritmico cooperano a ricreare l’oniricità del componimento, che tende infine ad una canzone d’amore in REb Maggiore suonata dall’orchestra al completo. È musica liberatoria, richiamante l’orgasmo sessuale sonoro, dove trova spazio persino una citazione di un “Nocturne” di Chopin, e che si conclude in realtà senza mai chiudersi. La musica si esaurisce così senza risolvere, rimanendo sospesa.

Era davvero il caso di spendere qualche parola in più per “Prélude à l’après-midi d’un faune” perché è da considerarsi una summa di tante diverse esperienze. Il periodo giovanile di Debussy, caratterizzato da gravi difficoltà economiche ed una travagliata vita sentimentale, trovò un punto di svolta con la presentazione dei “Nocturnes” nel 1900. Lo stesso Debussy parlò dell’opera sottolineando la differenza dalla forma abituale del Notturno. “Nocturnes” diviene una raccolta di suggestioni pittoriche trasferite in musica, dal lento e grigio cammino delle “Nuages” (nuvole in francese) al canto misterioso delle “Sirènes” scritto per un coro femminile a bocca chiusa.

Per Debussy l’episodio chiave della fine dell’800 porta il nome di “Pelléas et Mélisande”, indubbiamente una delle opere più importanti di tutta la sua carriera. L’opera debutto nel 1902, ma era stata abbozzata già nei primi anni novanta dell’Ottocento, con essa Debussy riuscì a creare un nuovo tipo di dramma per musica. Basata sul testo del drammaturgo simbolista Maurice Maeterlinck, nei cinque atti Debussy riprese la base letteraria parola per parola, seguendone il tortuoso cammino ovunque esso conducesse. Fulcro dell’opera è il triangolo amoroso tra Pelléas, il fratellastro Golaud e la principessa Mélisande, che tende ad una sinistra conclusione, con la morte di Mélisande dopo l’uccisione di Pelléas da parte di Golaud, il quale aveva scoperto l’amore tra il fratellastro e la principessa divenuta sua moglie. Ancora una volta Debussy è attratto dall’indeterminatezza del testo, ed il suo esperimento sarà ciò cui rinunciarono Strauss e Puccini, continuatori della tradizione operistica. Debussy comprime l’importanza della musica che non deve primeggiare, ma servire la parola.

Lo spartito orchestrale del “Pelleas” è frammentato dalla linea melodica del canto, che in realtà non è vero canto ma declamato. Le famose linee melodiche verdiane o wagneriane non ci sono più, il cantante canta sempre meno e la musica coopera a tale clima di smarrimento. Timbri più acuti caratterizzano Pelléas e Mélisande, personaggi giovani, mentre Golaud è rappresentato spesso dai corni, con note scure e forti che si attenuano solo in presenza della bella principessa. La scelta del canto declamato è data dalla volontà di far giungere il testo nella sua semplicità. Semplicità è la parola chiave, Pelléas et Mélisande è il primo tentativo operistico di stacco dalla tradizione.

Vi è una rinuncia alle forme d’arie e recitativi, emblemi del passato, ed un chiaro tentativo d’annullamento dell’enfasi orchestrale. Il “Pelléas” non avrà seguito, così come doveva essere, resterà un unicum per intensità e forza. Il pubblico si divise di fronte all’opera, ultimo sussulto di un audience francese ancora retta da critici e accademici della tradizione, ma il successo ben presto venne nelle repliche ed il debussismo divenne presto un vero e proprio fatto di costume: i lunghi capelli sciolti di Mélisande e la figura giovane e delicata di Pelléas vestito di velluto, divennero il segno, per tutta una generazione di giovani, di un languore esistenziale sempre più malato.

Il successo finanziario di Pelléas cambiò la vita di Debussy, gli anni della bohème giungono al termine con i primi del Novecento, abbandona la prima moglie per una donna brillante e colta, ed allo stesso modo abbandona anche tutti gli amici. L’inizio del Novecento vede un Debussy non più avventuroso esploratore sonoro (cit. Alex Ross), ma piuttosto rivolto ai valori francesi di chiarezza, eleganza e grazia. Di questo periodo sono le opere “La Mer”, “Préludes”, le “Estampes” per pianoforte e i cicli di “Images” per piano e orchestra.

Prendiamo la prima delle opere citate, “La Mer”, ovvero “tre schizzi sinfonici” composti tra il 1903 e il 1905. L’opera fece parlare di un ritorno alla sinfonia del romanticismo, ma in realtà ciò che accadde fu il venire a galla di quei rigorosi procedimenti costruttivi, da sempre propri di Debussy, fino ad allora sommersi dall’indeterminazione del periodo simbolista. Nelle nuove opere le atmosfere piene di pathos e mistero si sposano con precisi movimenti di danza. “Préludes” è esempio evidente. Si passa da un brano fatto quasi esclusivamente di scale esatonali come “Des pas sur la neige”, al rigido costruirsi de “Cathedrale engloutie” nel cui spartito ricompaiono tra le note le guglie, fino ad arrivare al motivetto fischiettabile de “La fille aux cheveux de lin”.

Dalle scale esatonali ai motivetti da bancone, niente di strano perché la bohème parigina incoraggiava a passare dall’esoterismo occultista al populismo da cabaret, spesso sovrapponendo i due mondi. I due volumi dei “Préludes” (1910 e 1913) rappresentano un vertice della letteratura pianistica, per ricchezza d’immagini timbriche e strumentali, una vera summa della ricerca di linguaggio di Debussy.

Il compositore cesserà completamente di comporre nel 1915, a tre anni dalla morte, ma anche con i tardivi “Études”, Debussy dimostrerà senza possibilità d’equivoco d’essere uscito del tutto da una poetica simbolista, di partecipare a pieno alle punte più ardite della ricerca di quegli anni. Ecco perché con Debussy nasceva, forse davvero, il Novecento musicale. È tempo di fermarsi per rimuginare un attimo su un personaggio tanto grande e controverso, frequentatore di locali discutibili, membro dell’Ordine Cabalistico della Rosacroce, che si riuniva in una stanza sopra il cabaret Auberge du Clou. In questo luogo Debussy incontrava spesso Erik Satie, uno dei protagonisti delle nostre prossime pagine.

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