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Crippled Black Phoenix – No Sadness Or Farewell

È un mondo lugubre e tetro quello di “No Sadness or Farewell”, dalle tinte vinaccia e bordeaux, qua e là macchiate di nero. L’album assomiglia ad uno di quei motel in disuso al lato dell’autostrada, trasandati, sporchi ma sempre abbastanza poetici per essere inseriti in qualche film di prima categoria. I Crip

È un mondo lugubre e tetro quello di “No Sadness or Farewell”, dalle tinte vinaccia e bordeaux, qua e là macchiate di nero. L’album assomiglia ad uno di quei motel in disuso al lato dell’autostrada, trasandati, sporchi ma sempre abbastanza poetici per essere inseriti in qualche film di prima categoria. I Crippled Black Phoenix sono un ottetto proveniente da Bolton e quando hanno rilasciato “No Sadness or Farewell” hanno ben precisato che le sei tracce che compongono il disco, non sono altro che un mini-lp, non un vero e proprio lavoro completo. Affermazione da prendere con le dovute precisazioni perché chi non conosce i precedenti della band potrebbe non cogliere l’ironia dietro la parola “mini-lp” pronunciata dal portavoce del gruppo.Il primo brano cala subito le carte in tavola. “How we rock” è una suite di ben dodici minuti, certo nulla di nuovo per il gruppo ma sicuramente qualcosa di inedito per chi si approccia all’ascolto di un “mini-lp” in maniera canonica. L’atmosfera della prima traccia è lenta, cadenzata e indubbiamente pinkfloydiana, o meglio ancora, gilmouriana. La fuliggine sonora che permea “How we rock” è qualcosa di romanticamente decadente, in cui si finisce per sprofondare attendendo il seguente colpo di rullante che pare davvero non arrivar mai. Una “Comfortably Numb” meno chiara e più eterna, che al suo quinto minuto trova una piacevole svolta in un crescendo incitato dalla chitarra di Demata e che porta con se un’epicità irrisolta, mai completa e sempre sull’orlo della dissoluzione. L’intensità cresce fino al termine del brano che si conclude con degli arpeggi distorti dal carico d’effetti sulla chitarra, un ultimo lamento di qualcosa molto simile a delle campane porta così al secondo brano. Dodici minuti di suite strumentale ed il secondo brano si apre con le note echeggianti di un synth che rimbalzano l’una contro l’altra quasi ricorrendosi. “Hold on (Goodbye to all of that)” strizza l’occhio agli U2 più datati, il refrain è arioso e luminoso. Le tinte pop troppo marcate spengono quell’atmosfera tanto suggestiva che aveva aperto il disco, il brano dura più di sei minuti ed in tutta onestà si arriva ad annoiarsi molto prima della fine.What Have We Got To Lose” riporta la band su un territorio forse meglio conosciuto, ed apre con delle tastiere accennate e cariche di delay che riempiono e pervadono l’aria. Indubbiamente con il post-rock la formazione gioca in casa e finalmente compare anche la bella voce dell’ospite Belinda Kordic. La chitarra di Demata suona ovattata e imbavagliata a modo, così come l’accompagnamento di Greaves dietro le percussioni, timido e perfettamente calzante con l’atmosfera soporifera del brano. “What Have We Got To Lose” è un’altra suite dalla notevole durata, l’intensità cresce verso la metà del brano quando uno stupendo solo di synth si staglia sopra un drum-set molto più presente. Chitarra e basso sembrano scomparire nelle trame dell’ensemble che tesse un brano voluttuoso e plumbeo.One Armed Boxer” è un intermezzo strumentale dalle tinte dark della durata di “soli” tre minuti e venti secondi, non ha però molto da dire e non suscita certo gran scalpore. La perla del disco è “Jonestown Martin”, in cui i Crippled Black Phoenix riprendono in mano le sonorità dei migliori Colour Haze, Black Sabbath e Spiritual Beggars, per quella che è una vera perla doom-rock. Il coro maschile incede su solidi riff di distorsione fortificati dall’aulica presenza di tastiere. L’incedere quasi militare prosegue anche per l’inizio del brano conclusivo che farà di tale particolare andamento della batteria il proprio leitmotiv. Ripetizione incessante del riff portante di chitarra attraversa tutti e cinque i minuti conclusivi.

Long live indipendence” chiude “No Sadness or Farewell”, il brano impiega un po’ nel rivelarsi per divenire poi un buon brano dal tiro, per certi versi, tipicamente indie. Interessante la scelta vocale, sempre strascicata e quasi repressa, sempre ben calibrato l’inserimento delle linee di pianoforte, unica pecca è forse la lunghezza totale della canzone, che però non compromette minimamente la chiusura dell’album.

Un disco sicuramente pregevole, eccelle nei brani più estesi dove la band ha modo di “esporsi” maggiormente. Decisamente da rivedere alcuni fra i momenti più melodici, ma le soleWhat Have We Got To LoseeJonestown Martin valgono il prezzo dell’album. Forse non il capolavoro della band, ma sicuramente un buon contenitore di prog e post rock squisitamente suonato, menzione particolare alla performance di una Belinda Kordic, ospite del disco, davvero ispirata.
Tenebroso, etereo e paradossalmente arioso.

Francesco SicheriGenere: Post/Progressive/Alternative

Lineup: 
* Joe Volk – voice, acoustic guitar
* Karl Demata – electric guitar, dobro, slide guitar
* Daisy Chapman – piano, keyboards
* Charlotte Nicholls – cello, voice
* Merijn Royaards – drums & percussion
* Christian Heilmann – bass guitar
* Mark Furnevall – synths & keyboards
* Justin Greaves – electric guitar, drums, saw, keyboard, acoustic guitar, banjo, effects, samples

Tracklist:
1. How We Rock
2. Hold On (Goodbye To All Of That)
3. What Have We Got To Lose (CD only)
4. One Armed Boxer
5. Jonestown Martin
6. Long Live Independence  

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