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Cobain Ai

Un computer ha scritto una canzone “alla Nirvana”

Intelligenza artificiale applicata alla musica: un computer ha scritto e registrato canzoni ispirate allo stile di artisti famosi all'interno di uno studio sull'attenzione alle malattie mentali.

Kurt Cobain è forse l’emblema del musicista “istintivo”, sicuramente non uscito (ma neanche mai entrato) da un’accademia, un artista che con una manciata di accordi e il fuoco nello stomaco è riuscito a scrivere un pezzo importante della storia della musica dello scorso secolo.
Può un’intelligenza artificiale costruita intorno a bit e regole piuttosto ferree di logica, creare qualcosa che possa anche solo avvicinarsi al suo stile?

Ok, recuperate un attimo quel senso di inorridimento che tutti abbiamo avuto al solo pensiero, è chiaro che un computer non può sostituirsi alle persone. Prima di commentare – ci rivolgiamo a chi sta leggendo oltre il titolo – in maniera sarcastica o denigratoria, sappiate che lo studio che ha portato a questi risultati ha tutt’altro scopo, cioè quello, a dire il vero interessante, di analizzare le cause e le dinamiche della depressione di certi artisti che spesso hanno portato a tragici risultati, come quello del suicidio di Cobain.

Chiaramente, questo tipo di disturbo mentale – termine forte ma a tutti gli effetti è un malessere che ha comunque dei risvolti medici documentati – nel caso degli artisti si riflette e riversa anche nelle loro opere.

Una “nuova canzone”

È così nata una “nuova canzone dei Nirvana”, chiaramente messo tra mille virgolette, poiché non esiste nessuna macchina che possa realmente generare da zero il genio dell’artista.
Casomai può solo imitare, sulla base di migliaia e migliaia di variabili immesse nel computo, e questo è quello che è successo.

Si intitola “Drowned in the Sun” e va a far parte del più largo progetto “Lost Tapes of the 27 Club“, in cui il computer (sfruttando la AI Magenta di Google) ha creato canzoni sullo stile di tutti i famosi musicisti del “club dei 27“, cioé quelli morti all’età di 27 anni. Parliamo quindi di Cobain ma anche di Jimi Hendrix, Jim Morrison o Amy Winehouse.

Ogni traccia è il risultato di programmi che analizzano come file MIDI fino a 30 canzoni di ogni artista e studiano in modo granulare le melodie vocali dei brani, i cambi di accordi, i riff e gli assoli di chitarra, i ritmi di batteria e i testi (questi ultimi sono poi ricreati attraverso un programma generico di AI chiamato rete neurale artificiale).
Il progetto è opera di Over the Bridge, un’organizzazione di Toronto che aiuta i professionisti della musica alle prese con problemi mentali, depressivi e simili.

Ascoltando il brano, ben si percepisce come riff e power chord derivino da questa o quella canzone, da una “Come As You Are” o anche brani più vecchi, ben prima del successo di Nevermind, pescando anche dal periodo più animalesco e “garage” della band, come nell’album Bleach, riscoperto da molti dopo il successo planetario (ne abbiamo parlato in diretta streaming).
Insomma, ne viene fuori una sorta di attività “circense” sulle principali attitudini alla composizione dimostrate in ciò che è stato edito fino alla morte del frontman, chiaramente nessuna A.I. può prevedere cosa sarebbe successo nell’ipotetico futuro mai realizzato.

La voce è stata invece messa da una persona reale, si chiama Eric Hogan ed è il cantante di una delle più note tribute band dei Nirvana.

Più serio di ciò che sembra

Se avete letto finora, avete quindi capito che al di là del “gioco”, c’è un aspetto molto importante, non dimenticando peraltro che negli ultimissimi anni alcuni grandi artisti ci hanno lasciato per suicidio o morte accidentale: Chris Cornell, Chester Bennington, Dolores O’Riordan e ultimamente anche Tom Petty.
Non in tutte queste morti è ancora chiaro quale sia il confine tra suicidio volontario e assunzione di medicinali con relativa overdose, ma d’altronde parliamo pur sempre di antidepressivi e mix di altri farmaci di questa tipologia.

E se tutti questi musicisti che amiamo avessero un supporto per la salute mentale?” dice Sean O’Connor, che è nel consiglio di amministrazione di Over the Bridge “In qualche modo nell’industria musicale, l’essere depressi è una situazione ‘normalizzata’ e romanzata… La loro musica è vista come autentica sofferenza“.

Ecco la domanda fondamentale… è giusto? Continuare a sfruttare – parliamo sia ai produttori ma anche ai fan – il mood dell’artista “maledetto” e depresso per il legame supposto con la loro capacità creativa, è lecito?
Sono domande pesanti e le risposte sono ancora più difficili.

A voi la parola sia sul risultato musicale che sull’obiettivo di questo studio.
Sicuramente, noi ci auguriamo che sempre meno artisti arrivino ad essere estremamente dipendenti dai farmaci e che possano essere aiutati se in difficoltà, senza perdere la creatività. Il fatto che quest’ultima sia legata per forza al malessere, probabilmente, è in parte un falso mito su cui sin troppo si è giocato con la vita delle persone.