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Il teatro comico di Gaetano Donizetti

L'argomento di questo articolo risulterà leggermente diverso rispetto a tutto ciò che è stato affrontato fino a questo momento all'interno di questa rubrica, il titolo concede più di qualche indizio utile, ma è giusto spiegare più dettagliatamente di cosa si andrà a parlare. Si è scelto di affrontare "il teatro

Siamo arrivati alla puntata numero otto della nostra rubrica intitolata “Alla scoperta dell’Opera“: parliamo oggi del teatro comico di Gaetano Donizetti.

L’argomento di questo articolo risulterà leggermente diverso rispetto a tutto ciò che è stato affrontato fino a questo momento all’interno di questa rubrica, il titolo concede più di qualche indizio utile, ma è giusto spiegare più dettagliatamente di cosa si andrà a parlare. Si è scelto di affrontare “il teatro comico di Gaetano Donizetti” con finalità ben precise: mostrare “l’altra faccia” di un compositore trattato fra queste pagine esclusivamente per i suoi lavori in “ambito tragico”, ed offrire una riflessione utile riguardo ad un cambiamento sociale che trova nell’evoluzione musicale donizettiana un buon veicolo d’espressione.

L’elisir d’amore” e “Don Pasquale” sono due opere separate da dieci anni di distanza, un’opera comica ed un’opera buffa che, sulla carta, non avrebbero dovuto presentare così tanti punti di distacco nel momento d’un confronto. Eppure le differenze fra quelle che sono due delle più riuscite ed apprezzate opere di Donizetti sono molte ed importanti. Riassumere qui le due trame ruberebbe fin troppo spazio utile ad altre riflessioni, si rimanderà pertanto alla consultazione delle molte fonti facilmente reperibili online tramite i link sottostanti.

Anzitutto è importante spiegare, per chi già non ne fosse a conoscenza, che il debutto di Donizetti, datato 1818, lo vide inserirsi in un mondo teatrale che affondava le proprie radici nell’adesione a convenzioni musicali e archetipi di intrecci/personaggi che da tempo riscontravano il favore del pubblico. Il consumo di melodrammi, che si avvicendavano sui palchi d’Italia con un ricambio frenetico, si basava sul tacito accordo fra pubblico e compositore che quest’ultimo avrebbe osservato e rispettato alcune convenzioni musicali e formali da tempo consolidate. La formazione di Donizetti, così come i suoi primi exploit operistici, si svolge nel cuore di quello che è il regno di Gioachino Rossini in Italia.

Per dare un’idea della portata del successo di Rossini si pensi al fatto che nel 1815 non esisteva un vero e proprio repertorio operistico come lo intendiamo oggi. Prima del debutto di Donizetti nel 1818 erano pochissime le opere ad aver goduto di più repliche nello stesso teatro, ma tale condizione cambiò durante la carriera di Donizetti soprattutto grazie allo strabordante successo delle opere di Rossini. Nel 1827, dopo aver debuttato nel 1816, “Il barbiere di Siviglia” divenne la prima opera a poter vantare una sesta stagione alla Scala, e nel 1848, anno della morte di Donizetti, giungerà alla sua tredicesima edizione. Il mondo teatrale “italiano” in cui Donizetti debutta cambierà radicalmente dopo gli anni Trenta dell’Ottocento, non certo senza relazionarsi agli eventi politici che andranno susseguendosi in maniera sempre più incalzante nella penisola del futuro Regno d’Italia.

L’Ottocento operistico post-anni ’30 perse parzialmente quel legame così stretto con l’opera comica, legandosi in maniera più decisa alla tragedia, ambito in cui, anche per propensione d’animo, Donizetti si cimenterà con grande profusione di sforzi. Il comico è infatti per Donizetti uno svago dal baratro del tragico, svago che però si concederà fino agli ultimi anni della sua carriera.

Così detto si potrebbe chiudere questo capitolo e continuare a godere delle opere comiche di Donizetti per il puro divertimento e per il godimento uditivo che sempre regalano, ma non è casuale che “Don Pasquale” mostri un Donizetti nuovamente alle prese con il comico nel pieno della sua maturità compositiva. Prima di procedere oltre è questo il momento adatto per chiedersi: cos’è il “comico”? Cosa s’intende per “buffo”? Volendone dare una definizione da dizionario “si dice buffo/a di un’opera di genere comico, detta anche “dramma giocoso”. Si dice anche di un ruolo (parte buffa) o di una voce (basso buffo). L’opera buffa è interamente cantata a differenza dell’opéra comique francese, che include parti cantate e parti recitate“. (1)

Tale definizione può risultare utile, ma serve andare più in profondità: cos’è che (nel teatro musicale) dà vita alla comicità? In “Drammaturgia dell’opera italiana” Carl Dahlhaus articola un’interessante tesi al cui centro troviamo il concetto di “altezza di caduta”. Dahlhaus rintraccia come requisito fondamentale del comico, e dell’opera buffa, la distruzione dello stile elevato dell’opera seria tramite parodia. Elevato alla propria esagerazione ed esasperazione, il “sublime” viene poi fatto cadere drasticamente nella banalità grazie alla parodia. Semplificando all’estremo potremmo dire: la comicità risiede nell’esasperazione dell’elevato e del sublime, che finiscono per cadere rovinosamente mostrando la propria banalità.

Attenzione però, nella caduta dello stile sublime insita nei mezzi d’espressione del comico, si inserisce con forza un elemento fondamentale: il pubblico. Una volta definiti il livello a cui inizia la caduta ed il livello a cui questa termina, è fondamentale comprendere da che punto d’osservazione il pubblico recepisce e metabolizza tale caduta, ed è questa una condizione che varia alle diverse altezze cronologiche. Questo discorso, apparentemente tanto articolato e astratto, serve ad enfatizzare la differenza che poteva intercorrere fra la produzione e la ricezione di un’opera comica rossiniana (archetipo del genere per il XIX secolo), “L’elisir d’amore” e il più tardo “Don Pasquale”. Abbiamo detto di come la ricezione di un’ipotetica opera di matrice (ed età) rossiniana sia da concepirsi in virtù del rispetto e del corretto “funzionamento” della macchina convenzionale, ovvero di quella ricetta di regole musicali, formali e drammaturgiche solidificatasi nel secolo precedente. (2)

La comicità di tali lavori è pertanto da rintracciarsi nell’adempimento del “format” comico, i cui intrecci solitamente pescavano da un portfolio di scelte ampio ma già ripetutamente esplorato nel corso del ‘700. La maestria di un compositore quale Rossini poteva quindi essere riconosciuta dal pubblico nell’espediente musicale scelto per realizzare quello che era uno schema drammaturgico non già completamente conosciuto ma indubbiamente familiare. “L’elisir d’amore” è un’opera che ancora deve molto alla tradizione e che conserva in larga parte l’eredità rossiniana e napoletana, ma allo stesso modo presenta alcuni elementi che divengono il filo conduttore con le tracce di modernità che si riconosceranno anni dopo nel “Don Pasquale”.

Se si volesse, come già fatto anche da William Ashbrook (forse il più celebre studioso donizettiano), approntare un rapido confronto fra “L’elisir d’amore” e “Il barbiere di Siviglia“, si arriverebbe a notare immediatamente un particolare non certo marginale. I personaggi dell’Elisir, malgrado non si possa parlare di immedesimazione psicologico-sentimentale dello spettatore, non sono semplici pedine al servizio dell’adempimento dell’intreccio, ma piuttosto emergono per le loro singole personalità emotive.

Il teatro comico di Gaetano Donizetti

Un confronto fra “Il Barbiere” di Rossini e “L’elisir” di Donizetti sul piano dei sentimenti mostra che “Il Barbiere” contiene una tale profusione di spirito, un tale turbinio ed esuberanza d’inventiva da far passare sotto silenzio il fatto che i personaggi sono descritti nelle loro apparenze superficiali. […] “Il Barbiere” aderisce ad uno stile e ad un’impostazione in base ai quali le questioni di cuore sono date per scontate e non merita dilungarsi nell’evocarle“.  (3)

Nell’Elisir le questioni di cuore sono anch’esse parte della risoluzione della vicenda, sottendono i dettami derivanti dalla tradizione di genere ma, soprattutto nel riconoscimento della costanza nei sentimenti di Nemorino da parte dell’amata Adina (“Ah! Fu con te verace / Se presti fede al cor” […] – Atto II Scena Ottava), cooperano all’approdo verso il lieto fine. Riportiamo queste considerazioni al paradigma di Dahlhaus discusso poche righe fa: “L’elisir d’amore” è specchio di una società (e di un pubblico) che ancora non ha mutato la propria prospettiva nell’osservare la caduta, si iniziano però ad intravedere i primordi di quello che sarà un progressivo slittamento dell’interesse verso il materiale sentimentale, ovvero si rintracciano qui i germi di uno spostamento del gusto per l’opera romantica.

L’avvisaglia musicale più forte di tale evoluzione futura è la celebre romanza di Nemorino “Una furtiva lagrima”, il cui ascolto in sede distaccata rispetto all’opera non lascia intravedere tracce di comicità, ma piuttosto sembra immergere l’ascolto in un dramma tragico. Il liquidare “Don Pasquale” a recupero nostalgico da parte di Donizetti è una pratica già tentata con scarsi e fin troppo esemplificanti risultati. “Don Pasquale” non è riconducibile in maniera immediata alla tradizione comica, ma è piuttosto un’opera che nel suo immergersi nel grande calderone del genere comico mostra tutti i tratti di uno spostamento inedito.

Il teatro comico di Gaetano Donizetti

Tale unicità non risiede nel completo scardinamento della comicità di tradizione o della tradizione rossiniana, ma si evince piuttosto dall’emergere di personaggi dai connotati umani e sentimentali ben consolidati, capaci di trionfare sull’artificiosità della trama che accomuna “Don Pasquale” al genere d’appartenenza ed allo stesso “Elisir”. Il personaggio di Don Pasquale, vittima dell’inganno e dello scontro fra mentalità moderne e antiquate della borghesia cittadina, è il cardine della capacità dell’opera di distaccarsi dal genere a cui è ascritta. È lui che entrando in scena nel Secondo Atto apre al nucleo comico dell’opera ed sempre è lui che nella seconda scena del Terzo Atto, la famosa scena dello schiaffo (espediente caro alla tradizione comica), grazie all musica che sottende le parole “È finita, Don Pasquale“, mostra i segni più chiari del distacco dai dettami di genere e le avvisaglie di un interesse per l’introspezione psicologica che sarà propria del teatro tragico della seconda metà del secolo.

ornando nuovamente al paradigma di Dahlhaus qui adottato: “Don Pasquale” rivela una prospettiva d’osservazione drasticamente mutata, in cui la ricezione si relazione ad una comicità roboante e di puro dinamismo che però lascia spazio a spiragli rivelanti un parallelo mutamento della società italiana verso una nuova condizione della classe borghese. Guardando all’Elisir e al “Don Pasquale” si può quindi comprendere come nel 1843 il “comico” per Gaetano Donizetti non fosse un semplice ritorno a “vecchie abitudini”. Quando paragonate con la tradizione comica e con la precedente produzione comica donizettiana, le scelte musicali del “Don Pasquale” si fanno specchio di un cambiamento sociale e culturale di un popolo che è già nel vivo e nel centro di un movimento di rivoluzione che porterà vent’anni dopo alla formazione di una nazione.

Note
(1) Glossario opera italiana, pag.134 in Gilles de Van, “L’opera italiana”, Carocci Editore, 5a ristampa, Roma, febbraio 2011;
(2) L’opera del ‘600, come la definì Metastasio, era una sorta di “bastardismo di tragedia e di commedia”. Il razionalismo dell’Accademia dell’Arcadia, le innovazioni di Apostolo Zeno e successivamente di Pietro Metastasio, porteranno la vena comica dell’opera secentesca ad emanciparsi ed a tracciare una propria via verso la nascita dell’opera buffa. Quest’ultima trova origini negli intermezzi comici inseriti all’interno delle opere serie (che non avevano relazione alcuna con il soggetto del dramma), che, nati come semplice diversivo comico per il pubblico, andarono via via acquisendo crescente successo ed interesse, fino a divenire un genere teatral-musicale a parte. Fu all’inizio del 1700 che si puntò a separare in maniera netta l’azione principale (seria) da quella secondaria (comica) facendo così vivere negli intermezzi comici una vera e propria trama secondaria. È questa l’innovazione decisiva nella storia del genere, quella – di fatto – che erge l’appendice comica del dramma al rango di un “genere”(Reinhard Strohm, L’opera italiana nel Settecento”, Marsilio, Venezia, 1991, pag. 113);
(3) William Ashbrook, “Gaetano Donizetti – Le opere”, EDT, Torino , 1987, pag.105.

Letture consigliate
William Ashbrook, “Gaetano Donizetti – Le opere”, EDT, Torino , 1987;
Gilles de Van, “L’opera italiana”, Carocci Editore, 5a ristampa, Roma, febbraio 2011;
Carl Dahlhaus, “Drammaturgia dell’opera italiana”, EDT, Torino, 2005;
Reinhard Strohm, “L’opera italiana nel Settecento”, Marsilio, Venezia, 1991;
Fabrizio della Seta, “Le parole del teatro musicale”, Carocci Editore, Roma, 2010.

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