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Now’s The Time! I 70 anni del drum guru Fredy Studer

L’artista svizzero festeggia le 70 primavere con un ambizioso progetto per sola batteria: un box contenente due vinili da 180 grammi e un libro di 250 pagine.

L’artista svizzero festeggia le 70 primavere con un ambizioso progetto per sola batteria: un box contenente due vinili da 180 grammi e un libro di 250 pagine.

Musicista di lungo corso, noto soprattutto per essere una delle colonne portanti dell’avanguardia jazzistica europea, lo svizzero Fredy Studer festeggia alla grande i suoi primi settant’anni con la sua prima prova discografica solista. Da poco la Everest Records ha infatti pubblicato “Now’s The Time! – Solo Drums”, un box contenente due vinili da 180 grammi e un corposo libro in inglese e tedesco di ben 250 pagine corredato di tante e belle fotografie.

Nel volume, quattro personalità della cultura elvetica ci raccontano tutto sull’artista di Lucerna. Il giornalista musicale Pirmin Bossart ne ha redatto un’esaustiva biografia, mentre Meinrad Buholzer ha ricostruito la vicenda musicale e umana della leggendaria band OM, in cui il batterista è cresciuto e che si è ricostituita nel 2006 dopo ben 24 anni.

Il critico radiofonico Beat Blaser ha scritto una sintetica storia del batterismo jazz svizzero e di come Studer vada considerato uno tra i suoi quattro ‘padri fondatori’; infine il letterato Peter Rüedi ha tracciato un ritratto intimo del musicista svizzero, svelandoci il temperamento, il carattere e il pensiero che stanno dietro al suo modo creativo di suonare la batteria.

Il libro rappresenta il modo migliore per sapere tutto su quanto Studer ha realizzato dal punto di vista artistico sino a oggi: ricordiamo tra le sue collaborazioni quelle con John Abercrombie, Charlie Mariano e John Zorn; i progetti incentrati sulle sole percussioni, dal duo con Pierre Favre al gruppo Singin’ Drums; o le band co-dirette come il trio Koch-Schütz-Studer e Phall Fatale, per un totale di oltre 90 album registrati in carriera.
I due vinili di “Now’s The Time” offrono invece una chiara visione di ciò che Studer è ancora oggi, uno sperimentatore instancabile che continua a studiare e a cercare il massimo della libertà creativa nel suo drum studio, paradossalmente collocato in quella che era la cella di un’ex prigione di Lucerna…

Now’s The Time! I 70 anni del drum guru Fredy Studer

La scelta di pubblicare le sue performance solistiche su vinile va decisamente controcorrente rispetto al modo odierno, ‘liquido’, di fruire della musica. Quali pensieri e quali riflessioni sono dietro questa sua scelta?

Intanto, sono sempre stato un fanatico del vinile e ho sempre saputo che queste registrazioni di batteria solista sarebbero state pubblicate su vinile, il che significa 180 grammi per ognuno dei due LP. Il suono di un long playing è più caldo e non così chiaro come quello di un CD. E tenere in mano un LP è fichissimo, perché puoi ammirare la copertina e, se ci sono, leggere le note: tieni in mano un’opera d’arte!

E siccome il mio intero progetto ha finito per sostanziarsi in due LP e un libro, non potevo che racchiudere tutto in un box. Inoltre vedo il CD nella stessa posizione del fax quando si è iniziato a usare la posta elettronica, qualcosa destinata a essere buttata via, mentre il LP è diventato oggi qualcosa di speciale, al contempo analogico e digitale, perché acquistando un LP ottieni comunque un codice per il download gratuito dello stesso album. Non c’è più bisogno dei CD!
Un altro aspetto è che il LP ti riporta ad ASCOLTARE la musica, è qualcosa di molto distante da un i-Pod con cui salti tra 3.000 canzoni diverse. Con un LP devi fare delle scelte, girare lato, riascoltare un brano, ascoltare di nuovo il lato A…

Un disco doppio di sola batteria rappresenta un’operazione decisamente ambiziosa. Soprattutto se, come nel suo caso, la visione dello strumento non è quella muscolare e ipertecnicistica oggi imperante, anche in certo jazz…

Sin dall’inizio avevo chiaro in mente che volevo suonare della musica con il mio strumento, e raccontare una storia con la mia musica! Ma che tipo di musica solista avrei dovuto suonare? Ho lavorato su mio materiale ‘originale’, che non fosse l’ennesimo album con roba già sviluppata da altri batteristi. E dato che sono sempre stato interessato da un lato al groove e dall’altro ai suoni e ai rumori, l’idea di base è stata quella di lavorare con questi parametri ‘paradossali’ e cercare di tenerli insieme in qualche modo.

Ovviamente mi sono preparato per la registrazione, lavorando sodo sul mio materiale, sull’idea di base, alcuni ritmi, alcuni suoni e rumori. Ma soprattutto ho voluto fare un album privo di sovraincisioni e di effetti elettronici. Nè di percussioni esotiche per ricreare dei suoni specifici. Il suono dell’album è basato su pelli e metalli. Altro aspetto importante: non ho mai considerato la batteria esclusivamente come una fonte di suoni. Sono un batterista, e anche se sono interessato alla scoperta di nuovi suoni deve sempre esserci la batteria al centro del mio modo di suonare.

In alcuni brani compaiono dei suoni che mi risulta difficile capire da cosa siano prodotti esattamente…

Facendo pratica in preparazione dell’album ho scoperto alcune cose speciali, che non mi è mai capitato di ascoltare in altri dischi di sola batteria. Ho lavorato molto sul sostegno dello hi hat: per il brano “Circle Stomp” ho piazzato un China da 22” sopra l’astina metallica, e ogni volta che suonavo lo hi hat sulla seconda terzina, questo veniva su e toccava il China sulla terza terzina.
Su “Lies mehr Nadeln” ho usato il sostegno hi hat senza piatti, con un China da 20” e uno da 18” a toccare l’astina metallica del sostegno: ogni volta che muovevo su e giù il sostegno con il piede, l’astina produceva questo suono ‘scratch’ nel toccare i due China… Insomma, per dirla in termini generali, i contenuti musicali hanno creato la forma della musica stessa. 

Molte delle tue composizioni per batteria e strumenti a percussione assortiti (gong, percussioni metalliche, eccetera) richiedono una capacità di coordinazione e un’indipendenza davvero notevoli. Quali sono stati i brani più difficili da realizzare, da questo punto di vista?

I pezzi più impegnativi, da un punto di vista tecnico, sono quelli che includono l’uso dei poliritmi: “Can I?”, “Now’s the Time”, “Joysticks”. E “Circle Stomp”, che sembra molto semplice, ma è molto più complicata di come potresti immaginare. Permettimi di aggiungere una cosa, ossia il ruolo fondamentale giocato da Roli Mosimann, cheha registrato e prodotto l’album.

Sapevo che volevo lui al mio fianco nel doppio ruolo di ingegnere del suono e produttore: condividiamo la stessa visione estetica, è a sua volta un batterista che conosce e capisce lo strumento. Ha vissuto e lavorato a New York per 25 anni lavorando con The Swans, i Nerve di Jojo Mayer e The Young Gods, oltre a produrre The The, Faith No More e Marilyn Manson.

Roli ha delle grandi orecchie e sa dove piazzare un microfono, in quale angolo e da quale distanza, per catturare il suono. E, altra cosa importante, mi offre un altro punto di vista: se pensa che una cosa non funzioni, me lo dice. O mi suggerisce di provare una cosa in modo diverso, o di usare un altro suono. Non credo che sarei riuscito a fare questo album senza di lui.

Da quanto tempo ti dedichi alle esibizioni solitarie e come hai maturato la decisione di esibirti in questo tipo di format?

In passato non sono mai stato troppo interessato alle performance da solo. Una cosa in cui credo fermamente è il fare musica insieme a qualcun altro, almeno in due. Nel corso degli anni mi è stato chiesto di tanto in tanto di esibirmi da solo, per esempio a un vernissage per una mostra di quadri. Cinque anni fa mi è stato chiesto un solo-concert al Williasau Jazz Festival: ho colto la sfida e ho lavorato a fondo su un po’ di materiale. Il concerto è riuscito benissimo, ho avuto un riscontro eccellente dal pubblico e mi sono sentito incoraggiato ad andare avanti su questa strada, anche da parte di alcuni amici che si sono detti disponibili a offrirmi una qualche forma di sostegno.

A quel punto ho davvero deciso di approfondire l’argomento e di lavorare a un intero programma per solo batteria (una cosa ovviamente ben diversa dal dover suonare un assolo di batteria) e di farne un album. A questa idea mi sono dedicato per gli ultimi tre/quattro anni e da poco ho anche iniziato a esibirmi con questo programma.

Now’s The Time! I 70 anni del drum guru Fredy Studer

Fredy Studer – Photo by Dragan Tasic

Quali le differenze tra suonare con altri musicisti e farlo da soli?

Fare questi concerti in solitudine rappresenta una situazione del tutto nuova per me, una nuova esperienza. Si tratta di una sfida, perché non sei aiutato dalle idee di altri musicisti e devi creare da te la tua musica. Ma d’altro canto c’è il vantaggio che nessuno può fare irruzione nelle tue idee o interrompere il tuo flusso creativo.

Immagino che l’uscita di “Now’s The Time” in coincidenza del suo settantesimo compleanno non sia stata casuale…

Io avrei voluto pubblicare l’album nel 2017, anno in cui ho compiuto 69 anni, un numero interessante sotto molti profili… Ma il team che mi supporta ha obiettato che per la promozione sarebbe stato meglio il 2018, quando ne ho compiuti 70. Ho compreso quest’argomentazione, ma avevo bisogno per me di un’ulteriore idea. 

E qual è quest’idea?

Quella di ‘laurearmi’ Maestro con questo album. Non sono un musicista ‘istruito’, non ho mai preso lezioni di batteria (se si esclude l’aver appreso da bambino i rudimenti e la tradizione del tamburo di Basilea), e dopo 45 anni di praticantato ho pensato di affrontare un esame per diventare Maestro. C’è molta ironia in tutto ciò, spero sia chiaro, ma anche un nocciolo di verità. Pratico il Karate e sono cintura nera terzo dan: per diventare un vero maestro in questa disciplina devi raggiungere il sesto dan.

Ero in Giappone per un camp di addestramento di Karate e ho potuto assistere agli esami per il sesto Dan di alcuni karateka di circa 65 anni, giudicati da tre grandi maestri tra gli 80 e gli 85 anni, tutti con l’ottavo o il nono Dan. A me sembrava che i candidati avessero fatto un’ottima prova, ma i grandi maestri hanno detto loro di tornare a casa a fare ancora pratica…
Quando ho deciso da sostenere il mio ‘esame di laurea’, ho capito che dovevo contattare alcuni grandi maestri dell’arte batteristica, ecco perché ho chiesto a Vinnie Colaiuta, Jack DeJohnette, Jim Keltner e Paul Lovens se erano disposti ad ascoltare le mie registrazioni e a esprimere il loro giudizio.

Quattro batteristi che suonano in contesti molt diversi: Jack – se si esclude Roy Haynes – è l’ultimo maestro della scuola jazzistica ‘tradizionale’, colui che è riuscito a sostituire Tony Williams nella band di Miles Davis! Paul Lovens – secondo me – è il padre di tutti i batteristi della scuola europea della libera improvvisazione. Jim Keltner, avendo realizzato più di 3.000 registrazioni, è uno dei più grandi batteristi da studio, che groova come un pazzo e fa sempre la cosa più adatta alla canzone, non un colpo di più, non uno di meno. Quanto a Vinnie, è in possesso di una tecnica strabiliante ed è un maestro della poliritmia, rispetto alle cui capacità le mie sono davvero poca cosa. Puoi quindi capire quanto abbia gradito ricevere i loro feedback a proposito di Now’s The Time.

Come nascono le composizioni che si ascoltano su Now’s The Time? Sono pianificate in tutto o in parte e che ruolo vi svolge l’improvvisazione?

Come già detto, ho lavorato su materiale ‘originale’, su alcuni ritmi e su dei suoni insoliti e in diversi brani ho finito per utilizzare una batteria ‘preparata’ (hai presente un ‘pianoforte preparato’?), con pezzi di diverso materiale – soprattutto metallo – su rullante e floor tom. E andando avanti ho finito per concepire questi ‘brani concettuali’, alcuni più strutturati, altri meno. Al contempo è stato importante per me mantenere fermo il principio dell’improvvisazione: non volevo solo andare in studio a registrare nel modo più perfetto possibile ciò che avevo preprato, ma prendermi qualche rischio improvvisando nell’ambito della cornice organizzata di ciascun brano. Volevo sorprendere me stesso durante la registrazione.

E c’è riuscito?

Ti faccio un esempio. Nel finale del brano “Now’s the Time” c’è probabilmente la parte tecnicamente più difficile dell’intera registrazione (almeno per me). Di base è un pattern in cui suono in tre (con le mani) su quattro (con i pedali). Ho eseguito una sorta di pattern samba con le mani sopra quello dei piedi, per poi suonare lo stesso ritmo, ma solo con la mano sinistra, senza usare la destra. E dopo ho suonato la cassa con un accento sull’ultimo beat del pattern, il che ha creato una sorta di crescendo.

Quindi ho suonato con la mano sinistra una sorta di decrescendo con la bacchetta sul cerchio del rullante (producendo un effetto che puoi sentire su alcuni dischi di Dub, quando si utilizza un delay). E proprio alla fine ho aggiunto con la mano destra dei suoni distorti e fuori tempo prodotti su un China da 14″ China appoggiato sul floor tom.

Sembra comunque tutto molto organizzato…

Ma ci sono due brani che non erano affatto in programma. Avevo un amico seriamente malato da alcuni anni. Ogni tre mesi passavo una giornata con lui, parlando spesso della malattia e della morte. Insomma, ero in studio con Roli Mosimann quando un giovedì pomeriggio ricevo una telefonata dal mio amico che mi invitava a cena insieme alla mia compagna per la settimana successiva, per poterci vedere un’ultima volta.

La telefonata mi ha lasciato di umore triste e pesante: avevamo in programma con Roli di incidere ancora due pezzi, ma non sarei riuscito a farcela: piuttosto ho montato il mio gong grande e ho registrato “Rostiger Himmel”, un’improvvisazione spontanea. Quindi abbiamo preparato una pentola piena d’acqua e ho improvvisato e registrato “An Open Window for Farsi” con il water gong.  

Nella tua carriera hai avuto modo di conoscere e confrontarti con alcuni importantissimi musicisti europei e statunitensi: quali gli incontri più importanti e cosa ti hanno lasciato?

Per prima cosa, io continuo ancora adesso a imparare dai musicisti con i quali suono! Non essendo un musicista che ha studiato, il mio modo di crescere è stato quello di ‘imparare facendo le cose’ e dopo ogni concerto mi era chiaro quali erano i miei punti deboli e in cosa dovevo migliorare. Certo, sono stato molto fortunato a suonare con dei grandi musicisti e tu impari di più suonando con artisti migliori di te.

A metà anni Settanta mi fu chiesto di suonare con George Gruntz e Franco Ambrosetti, e questo poi mi ha messo in condizione di esibirmi con il sassofonista Joe Henderson e bassisti quali Dave Holland e Miroslav Vitous. Pochi anni prima li ascoltavo sui dischi e non immaginavo che avrei potuto suonare con loro. In Percussion Profiles (ECM, 1978) ho suonato con Jack DeJohnette, Pierre Favre e Dom Um Romao.

Ho suonato nella Charlie Mariano Band con Jasper van’t Hof e nel Rainer Brüninghaus Trio con Markus Stockhausen, con Trilok Gurtu e i bassisti Jamalaadeen Tacuma e Jean-François Jenny-Clark. Altri grandi musicisti erano i cantanti Phil Minton e Shelley Hirsch, e poi John Zorn, Joey Baron e Robyn Schulkowsky, Amin Ali e il fantastico Sonny Sharrock.

Ma dove ho imparato di più è stato lavorando duro con band quali OM (con Christy Doran, Urs Leimgruber e Bobby Burri), Red Twist & Tuned Arrow (con Christy Doran e Stephan Wittwer), il trio Koch-Schütz-Studer (con Hans Koch e Martin Schütz) e con Phall Fatale (con Joy Frempong, Joana Aderi, John Edwards e Daniel Sailer): non esiste nulla di più grande della musica improvvisata o di una band compatta e nulla è più forte dello spirito di una band!

Che esperienza è stata quella della band Singin’ Drums?

Un’esperienza fantastica: avevo già suonato qualche volta con Pierre Favre, ma fu la prima volta con Paul Motian e Nana Vasconcelos. Abbiamo provato le composizioni scritte appositamente per il nostro ensemble da Pierre a Willisau, in Svizzera, per una settimana, quindi abbiamo lì fatto il nostro primo concerto, dopo il quale ci siamo fermati nella stessa sala da musica per registrare l’album Singing Drums per la ECM. 

Come definirebbe il suo rapporto con il collega Pierre Favre?

Ho ascoltato Pierre per la prima volta intorno al 1968/69 in un fantastico concerto a Lucerna con Irène Schweizer, Peter Kowald ed Evan Parker. Poi l’ho incontrato un anno dopo, quando andai alla fabbrica della Paiste per comprare un set di piatti e Pierre lo selezionò per me. Nel 1980 con Pierre fondammo il duo Drum Orchestra con cui facemmo molti concerti e registrammo l’album Crisscrossing.
In seguito suonammo insieme nel progetto Percussion Profiles, quindi in Singin’ Drums e infine nella band di Pierre The Drummers. In tutti questi anni ho imparato davvero tanto da lui, soprattutto in fatto di suoni e di ‘drammaturgia’.

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Fredy Studer – Photo by Ben Huggler

Da anni collabora come sviluppatore di suoni con la Paiste: può dirci com’è nato il suo rapporto con l’azienda di Nottwill?

Nel 1970, dopo una pessima esperienza con un trio rock a Roma, rientrai in Svizzera e chiamai Pierre Favre, chiedendogli se c’era la possibilità di un lavoro part-time alla Paiste. Il timing era perfetto, perché Pierre stava pensando in quel momento di lasciare l’azienda. Mi ha insegnato a testare i piatti e ho iniziato lavorando anche per il Drummer Service (che offre supporto agli artisti Paiste, ndr).
In seguito divenni assistente di Pierre. Nel 1978 mi dimisi dall’impiego part-time e iniziai a collaborare come consulente freelance nello sviluppo dei suoni, lavorando insieme a Robert Paiste, un rapporto durato sino al 2016.

Ci sono delle linee che sono state sviluppate su suo input?

Ho iniziato alla Paiste poco prima che inaugurassero la linea di piatti 2002. La mia prima partecipazione nello sviluppo di una serie è stata quella con Robert Paiste per la Sound Creation: era il periodo in cui Jack DeJohnette passò alla Paiste e ci diede alcuni consigli specifici per sviluppare il Dark Ride da 22”. Da allora presi parte allo sviluppo di tutte le linee successive, come Rude, Signature, Traditionals, Dark Energy e Masters. Il mio lavoro alla Paiste è anche la ragione per cui ho potuto conoscere tanti grandi batteristi come John Bonham, Jon Hiseman, Cozy Powell, Carl Palmer, Al Foster, Steve Jordan, Ian Paice, Jim Keltner e Stewart Copeland. L’ultimo grande lavoro fatto per l’azienda è stato lo sviluppo della linea Modern Essentials per e con Vinnie Colaiuta.

A proposito di strumenti, perché ha ribattezzato la sua batteria “la Gretsch Lamborghini”?

Per via del suo colore, molto simile a quello della casa automobilistica, e perché è una batteria dalle misure particolari. La cassa da 18″ x 18″ fu realizzata su misura quando firmai per la Gretsch a metà degli anni ’80. Andai in visita alla fabbrica in USA e mi diedero un mucchio di tamburi, compreso un floor tom 15″ x 15″. Dopo un po’ per motivi ambientali la Gretsch dovette interrompere la produzione di quel tipo di giallo (il giallo Tony Williams), e questo significa che sono l’unico proprietario delle sole due casse Gretsch gialle da 18″ 18″ esistenti. Divertente!

Che tipo di rapporto ha con i suoi strumenti?

Non sono un feticista degli strumenti: non posseggo dieci rullanti diversi o cose simili, né vado a caccia di informazioni su cosa c’è di nuovo sul mercato. Con Gretsch e Paiste ho trovato gli strumenti che mi permettono di esprimermi e, dato che li suono da diversi anni, è come se ci fossimo fusi: insomma, è una relazione solida e meravigliosa.

Nel dettaglio, qual è la strumentazione utilizzata in Now’s The Time?

Batteria Gretsch (gialla, ma non saprei dirti il modello…): rullante in legno da 14″ x 5″; rack tom 12″ x 8″; floor tom 14″ x 14″; cassa 18″ x 18″ (custom made). Pedali e hardware DW. I piatti sono Paiste: hi hat Dark da 14″ (prototipo Masters); Swiss Thin Crash da 18″ (prototipo Masters) con sopra, montato al contrario, un Bell Signature da 8″; Dark Ride (prototipo Masters) da 22″; hi hat remoto da 10″ Light (prototipo Masters); Tuned Gong da 22″ su asta per piatti, con sopra al rovescio un Bell Signature da 12″; Bell Ride (prototipo Signature) da 20″. Dietro la batteria c’era il Gong n. 3 Sound Creation da 26″ e un Tuned Gong da 32″. Le pelli battenti sul rullante sono Gretsch Permatone sabbiate bianche; le risonanti delle Remo Clear Ambassador; stesse battenti sui tom, con risonanti Gretsch Permatone; la pelle frontale della cassa è anch’essa una Gretsch Permatone sabbiata bianca, mentre la battente è una Aquarian Force 1. Bacchette Vic Firth SD9; sono Vic anche spazzole, mallets e Dreadlocks. Inoltre spesso i miei tamburi sono ‘preparati’, ossia piazzo degli oggetti, per lo più metallici, su floor tom e rullante.

Cosa la aspetta per i prossimi 70 anni, musicalmente parlando?

Ha, ha! Questo lo dirà il tempo… Per i vostri lettori: possono ordinare il box Now’s The Time sul sito della casa discografica o direttamente dal mio sito web personale.

Cover photo by Ben Huggler