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Lo studio di registrazione: il ruolo di session man

Ritengo personalmente che il ruolo di session man sia uno dei ruoli più importanti per un musicista. È un ruolo che permette di divenire parte attiva della musica col proprio strumento, perché secondo me suonare il proprio strumento sotto il profilo solistico oppure con delle sole basi musicali, il che è anche divertente ovviamente, non è lo stesso che divenire parte di un intero discorso musicale ove vi è la composizione ad essere l’elemento prediletto.

Io credo che i grandi musicisti strumentisti che sono divenuti delle leggende abbiano fatto parte di un’epoca musicale in cui diversi generi musicali sono nati, ovvero musica nuova mai sentita prima che ha creato nuovi modi artistici di concepire musica e che ha ispirato le successive generazioni. Sono appartenuti ad un periodo in cui è nata della musica talmente originale e innovativa che dava risalto all’unicità e all’importanza della composizione, all’interno della quale i musicisti che l’hanno incisa hanno inserito il loro modo di suonare, guidati sempre da coloro che l’avevano scritta e inventata.

Mi viene da pensare a Chick Corea, John McLaughlin, Jimi Hendrix, Miles Davis, Herbie Hancock, Quincy Jones, i Beatles, i Nirvana. Tutte persone che hanno inventato e creato musica nuova, dei nuovi generi musicali.
I musicisti strumentisti che hanno inciso la musica scritta da questi personaggi sono a loro volta diventati delle leggende del loro strumento e della loro musica perché, a prescindere da quale fosse il loro modo di suonare, hanno utilizzato quest’ultimo per dare un contributo artistico alla musica di questi grandi compositori che l’hanno scritta.

Secondo me nel lavoro in studio di registrazione la performance dei musicisti deve essere ritenuta ancora più importante rispetto al live, perché la versione di un brano o di una composizione che verrà prodotta in studio rimarrà tale per sempre. Ovviamente ogni genere ha degli aspetti essenziali che il musicista deve rispettare nell’esecuzione e che riguardano lo stile di accompagnamento, la ritmica, l’armonia, la struttura, elementi legati all’improvvisazione nel caso di alcuni generi per esempio.

A prescindere da quale sia il genere che si suona e che si incide, la performance in studio deve essere, secondo me, curata sotto tutti i dettagli per far sì che le parti eseguite col proprio strumento fondano bene con la musica. Il suonare più o suonare meno dipende da quello che il genere richiede. Che si tratti di eseguire soli in un brano, ove in tal caso la spontaneità e il flow saranno gli elementi cardini, dipende sempre dal genere e dalla composizione.

Il tutto gira intorno alla musica che si sta suonando: se la musica consente di suonare di più perché è il brano che funziona in quel modo, allora così sia. Il ritmo può essere più complesso e può richiedere l’esecuzione di più note così come ci possono essere anche parti solistiche. Oppure se la musica necessita dell’esecuzione di parti più semplici e mirate al risultato finale che un compositore o produttore vuole ottenere, ad esempio l’esecuzione di ritmi più semplici e specifici che garantiscono il flow più appropriato per il brano come anche nelle progressioni armoniche e senza dover cambiare o aggiungere una nota, allora così sia allo stesso modo.

Ricordo la musica di Frank Zappa ove le parti di tutti i musicisti erano scritte e si dovevano eseguire cose assurde che contenevano tantissime note e senza nemmeno tralasciare una nota, e parti molto più semplici senza dover aggiungere nemmeno una nota. Questo perché quando alla base di tutto c’è un genio e grande compositore che compone la musica e pensa, sin dall’inizio, al risultato finale da ottenere scrivendo le parti di tutti gli esecutori, ci si accorge che il tutto è in funzione della musica, che nulla può essere suonato al di fuori di quello che il compositore stesso ha scritto.

Io non credo nella frase “less is more, ovvero “il saper fare meno vuol dire saper fare di più”, perché io personalmente ritengo che sia la musica a stabilire se occorre il più o il meno da dover suonare. La cosa ovviamente che un musicista professionista deve saper fare in ogni caso, a prescindere dal tipo di contesto musicale, è quella di non cadere nell’overplaying, ovvero suonare di più rispetto a ciò che la musica richiede.

Anche se si sta suonando o registrando un brano difficile che richiede l’esecuzione di tante note, non si deve mai suonare di più, sia nei soli che nell’accompagnamento secondo me. Quindi mi rifaccio al discorso che ho svolto nel precedente articolo sulla tecnica.
Una buona se non ottima conoscenza della tecnica, unita alla disciplina, alla capacità di ascolto musicale e alla conoscenza dei generi musicali, consente al musicista di individuare cosa suonare, ovvero le idee musicali più appropriate per quel genere e contesto musicale.

Un bravo musicista deve suonare per quella che è la musica che sta eseguendo. È sempre la musica secondo me a dirci quello che dobbiamo suonare. L’esperienza come session man e di incidere in studio consente di migliorare in questo secondo me.

In studio c’è un approccio nei confronti della musica totalmente diverso rispetto al live. In studio la musica deve essere trattata con molto più rispetto, secondo me, perché siccome andremo ad incidere versioni di composizioni che rimarranno tali per sempre in un disco, dobbiamo preoccuparci di come andiamo a mettere le mani sulla musica.

Io personalmente quando incido penso sempre se ciò che sto suonando è nell’ordine e nella funzione della musica e se l’idea che sto suonando è la più appropriata per la musica che sto eseguendo. È secondo me importante simulare, quando si è soli, delle sessioni di registrazione proprie registrando brani di diverso genere, riascoltarsi e vedere se l’esecuzione è giusta: vedere se il timing e la ritmica sono precisi, se si è dentro al brano che si sta suonando o no.

Bisogna accorgersi se abbiamo suonato troppo o addirittura se mancano idee alla musica che servono per abbellire e arricchire la musica stessa. Dico questo perché esistono clichè che in certi generi vanno rispettati, oppure a volte il suonare poco porta a fare poco e dunque all’assenza di idee musicali invece necessarie al brano. Il tutto, ripeto, è in funzione del tipo di genere e del tipo di musica che si suona e si è in grado di capire cosa si deve suonare e cosa no solo se si conosce bene il genere.

Simulare sessioni di registrazione personali nel proprio studio può essere una cosa buona per farsi trovare preparati quando ci si trova poi in studio a registrare con altri musicisti o con un produttore che ha bene in mente il risultato finale da ottenere. Non si sà mai ciò che si andrà a registrare quando si è in studio. A me sono capitate diverse occasioni in cui ho registrato cose del tutto diverse tra loro: dal Jazz, alla Fusion, al Pop, al Metal, al Prog, all’R&B, al Pop Latino, al Country, al Blues ecc.

In ogni caso è bene conoscere il genere e individuare ciò che musicalmente serve al contesto e alla composizione. Non importa se si registra in Home Recording oppure vedendosi tutti in sala di incisione, rimane sempre il fatto che alla fine dobbiamo suonare ciò che è in funzione della musica, veloce o lento che sia.

Io credo inoltre che, in un processo di composizione e di produzione di un brano, il ritmo debba sempre essere in funzione della melodia e non viceversa. Credo che ci sia bisogno di pensare prima alla musica e dunque alla melodia e poi di comporre il ritmo in un modo che esso diventi al più possibile un tutt’uno con la musica stessa.

Quando l’homo sapiens iniziò a cantare scoprendo il suono tramite la propria voce, ha dato prima origine a delle melodie, a dei canti. Il ritmo lo ha inserito successivamente in relazione alla melodia, creando infine delle danze.

Mi sento assolutamente in dovere di parlare di una particolare esperienza che ho avuto quando ho dovuto registrare le batterie per delle composizioni del grande Corrado Rustici, un mentore da cui sto imparando moltissimo. Posso iniziare col dire che si tratta di vera musica. Una musicalità incredibile in tutte le composizioni, nelle melodie, in tutti gli arrangiamenti e nei ritmi.

Corrado Rustici

Con Corrado ho scoperto un modo di lavorare verso la musica che non avevo mai affrontato prima. Lui mi ha pilotato all’interno di un viaggio, registrando le sue composizioni, alla ricerca delle parti di batteria più giuste e che divenissero un tutt’uno con la musica, come se la batteria fosse un altro strumento musicale che non fosse la batteria stessa.

C’è stata una ricerca, sotto la sua guida, di ritmi che si incastrano perfettamente con la composizione e anche nella scelta dei fill. Mi sono reso conto che non basta pensare al ritmo solo per dare una base solida alla musica, oppure pensare al fill solo come un momento di transizione del brano. Al contrario, ho realizzato che sia il ritmo che il fill vanno concepiti come se fossero una vera composizione.

Ho capito che non si deve incidere “da batterista”, ma da produttore. Non si deve pensare a suonare le parti di batteria osservandole da una prospettiva batteristica, ma mettendosi al servizio della musica, osservandosi dal di fuori e ponendosi la domanda: “ciò che sto facendo è in funzione della musica?”.

Come ho precedentemente detto, quando vi è un grande compositore che scrive musica, lì ci si rende conto che nulla può essere suonato al di fuori di ciò che lui ha pensato. Questo l’ho vissuto su di me registrando queste composizioni con Corrado.

Mi sono reso conto che la batteria e tutta la sezione ritmica non deve semplicemente garantire una solida base su cui la musica poggia, ma anche il ritmo deve essere una vera e propria composizione per far sì che si fonda perfettamente con la musica, a prescindere se si suona più lento o più veloce e indipendentemente dal genere musicale.

Questa esperienza ha cambiato radicalmente la mia percezione di ascolto. Da quel momento in poi io penso con molta più attenzione all’esecuzione di parti che fondano al più possibile con la musica, provando a suonare non da batterista ma più da produttore.



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