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Ginger Baker il Rosso: la batteria e lo stile

Ginger Baker il Rosso e la sua batteria: i suoi kit, il suo stile, la sua storia da batterista; il nostro ricordo di un grandissimo dello strumento.

Una figura di riferimento per la comunità batteristica mondiale, ma anche un personaggio scomodo, degno di una novella di Dickens per l’aspetto inconfondibile, il carattere insopportabile e i rovinosi rovesci finanziari. Una vita di eccessi ne ha fatto il prototipo del rocker dannato, famoso per i giudizi sprezzanti elargiti a molti dei musicisti con cui aveva suonato.

Peter Edward Baker, detto con scarsa fantasia “Ginger” per via dei suoi capelli rossi, nasce a Lewisham, sobborgo di South London, il 19 agosto 1939; per i primi 14 anni di vita la sua massima aspirazione sembra sia quella di diventare un ciclista professionista, sogno che si infrange in seguito a un incidente stradale

Curioso, irrequieto e ribelle di natura, ‘il roscio’ è anche naturalmente portato per le arti e a un certo punto decide di ascoltare la musica con un po’ più di attenzione.
Dopo una falsa partenza con la tromba in una banda giovanile, ‘scopre’ la batteria e inizia a tormentare i suoi compagni di classe tamburellando sui banchi con penne e matite e la sua famiglia battendo a tempo le posate sul tavolo della cucina, fino a costruirsi una batteria giocattolo utilizzando vecchie scatole di biscotti

Alla rivista Musician ha raccontato: “Suonavo su quel giocattolo di latta da circa tre mesi quando ottenni un’audizione con una buona band, cui dissi che suonavo da tre anni. Mi presentai con il mio kit giocattolo dicendo che il mio strumento era rotto. Mi fecero sedere dietro una vera batteria e ottenni il posto. Ho pensato: cavolo, questa cosa la posso davvero fare. A quel punto convinsi mia madre a comprarmi uno strumento vero“.

A soli 16 anni Ginger molla tutto, lavoro e famiglia compresi, e tenta la fortuna come musicista. La sua formazione di fatto avvenne sul campo; per il resto dipese quasi esclusivamente dall’ascolto dei dischi dei grandi maestri del jazz, da “Baby” Dodds Max Roach, da Art Blakey Elvin e “Philly” Joe Jones, oltre al jazzista inglese Phil Seaman.
Proprio il tentativo di emulare lo stile esuberante di alcuni dei suoi idoli gli costò il licenziamento da alcune band, prima di approdare alla prolifica scena delle commedie musicali del West End di Londra, un tipo di lavoro per cui dovette imparare a leggere la musica. 

A inizio anni Sessanta Ginger Baker si era ormai fatto conoscere sulla scena jazzistica della capitale britannica, ma non sempre il suo stile appassionato e poco convenzionale era apprezzato nell’ambiente: “All’epoca suonavo come un pazzo ed ero molto coinvolto emotivamente nella musica, ma ad alcuni musicisti questa cosa non piaceva. Rischiavano di perdere il controllo della band. Tanti batteristi si limitano a suonare quello che sentono sui dischi, io ho sempre cercato di essere me stesso, anche se chiaramente avevo delle influenze. Quando suonavo jazz moderno mi accusavano di essere un rock’nroller perché mi piaceva far sentire il levare, ma era la stessa cosa che faceva Art Blakey! A certa gente non piaceva questo batterista dal volume notevole che marcava il levare, faceva battere le mani al pubblico e lo faceva ballare. Ma io non mi sono mai considerato un musicista rock, sono sempre stato un jazzista“.

I primissimi anni Sessanta vedono anche imporsi sulla scena britannica il Rhythm and Blues: Baker nell’estate 1962 si trova a sostituire un certo Charlie Watts nei Blues Incorporated di Alexis Korner, lasciati pochi mesi dopo per dar vita con Graham Bond e Jack Bruce alla Graham Bond Organisation, in cui entrarono successivamente anche il giovane e virtuoso chitarrista John McLaughlin e il sassofonista Dick Heckstall-Smith.
Con questa band Ginger mette ulteriormente a fuoco il suo approccio aggressivo allo strumento, riuscendo a combinare in una miscela già originale gli stilemi del rock e del blues elettrico con elementi di tecnica jazzistica. 

Un periodo fecondo artisticamente, ma anche il periodo in cui il musicista inizia a far uso di eroina. Baker avrebbe sempre negato in pubblico di avere una vera e propria dipendenza da questa sostanza, come anche dalle anfetamine e dall’alcool.
E a chi sosteneva che la sua velocità di mani e piedi dipendesse proprio dall’abuso di certe sostanze rispondeva di essere una persona naturalmente portata alla velocità, una sorta di riserva di energia ambulante (qualche critico avrebbe invece chiamato in causa il passato agonistico da ciclista per spiegare l’incredibile durata ed energia delle performance con i suoi arti inferiori).

Nel 1966 Baker, Eric Clapton e Jack Bruce danno vita ai Cream, trio tra i più importanti nella storia della musica moderna, con diverse hit capaci di scalare le classifiche di vendita in Gran Bretagna e negli States grazie a una formula che coniugava rock, reminiscenze bluesistiche, psichedelia e lunghi assolo liberi dei tre strumentisti.
Era la mia band, la mia idea. Dal mio punto di vista era un mezzo per avere dei brani in cima alle classifiche, e ci sono riuscito. La ragione per cui ho continuato a suonarci era perché sarebbe stato poco intelligente non farlo: ogni cosa che facevamo si trasformava in oro…“. 

Le parole del batterista evidenziano i difficili rapporti subito emersi tra i componenti di una band che aveva comunque una marcia in più, il prototipo del power trio come lo intendiamo ancora oggi. Tra le migliori tracce incise con questa formazione si possono senz’altro ricordare “White Room“, dall’introduzione (e due interludi) in cinque quarti e l’uso dei timpani sinfonici, il trascinante groove tribale di “Sunshine of Your Love“, “Traintime“, caratterizzata da un serrato gioco di spazzole, “I Feel Free“, con le sue interessanti aperture di hi hat. 

Ma soprattutto “Toad“, con un lungo assolo in cui Baker, su un tappeto di martellanti colpi singoli  suonati sulla doppia grancassa della sua Ludwig in finitura Silver Sparkle, fa fluire con le mani un torrente di lunghe frasi che generano grande tensione, combinando accenti jazzistici in stile be-bop, poliritmie di sapore africano e fragorose rullate sui piatti. 

Nel video seguente, prima di un’apprezzabile versione live di “Toad” e del suo celebre assolo, Baker su richiesta dell’intervistatore mostra due dei rudiments da lui più studiati in gioventù, il flam accent e il 4 Stroke Roll, eseguiti sul rullante e scomposti sul set.
Evidente la sua dimestichezza con l’accompagnamento e il fraseggio jazzistico, per i quali ricorre all’uso della presa traditional, mentre quando era chiamato a fraseggiare sui tom prediligeva la presa matched, con bacchette piuttosto leggere per favorire i rimbalzi (all’epoca delle Ludwig 7A).

Per un batterista dotato di inventiva, musicalità e grande capacità di fare spettacolo (quella che gli americani chiamano showmanship), un kit ‘allargato’ rappresentava la classica ciliegina sulla torta.
Pioniere dell’uso della doppia cassa nel rock insieme a Keith Moon (The Who), Baker ha raccontato di aver optato per questo tipo di set up dopo aver assistito a un concerto della big band di Duke Ellington, uno dei maggiori compositori della storia del jazz: “Sono andato a un concerto di Duke Ellington nel 1966 e Sam Woodyard suonava alcune cose incredibili con i tom tom e due grancasse. Keith Moon era con me in quel concerto e ne abbiamo parlato. Subito dopo lui si è recato alla Premier e ha comprato due kit che ha montato insieme. Io invece ho dovuto aspettare che la Ludwig preparasse un kit per me secondo le mie richieste specifiche. Per questo Moonie ha iniziato a suonare una batteria a doppia cassa alcuni mesi prima di me“. 

Grosso modo nel suo periodo d’oro con i Cream Baker utilizzava due casse da 22″ x 14″ (oppure una da 22″  e una da 24″, anni dopo sostituite da due casse da 20″). Due anche i tom, rispettivamente da 12″ x 8″ e 13″ x 9″, montati utilizzando attacchi Rogers e tenuti flat, ossia poco o niente inclinati, per favorire l’esecuzione dei rimshot; due i floor tom da 14″ x 14″ e 16″ x 16″

Il rullante preferito a lungo è stato un Leedy in legno degli anni Quaranta da 14″ x 5″, acquistato nel 1960 dal batterista della band di Kid Ory, allora in tour in Inghilterra.
Quanto ai piatti, per molto tempo Baker ha continuato a utilizzare gli Avedis avuti dalla Zildjian nel 1966, in particolare un ride rivettato da 22″ (all’estrema destra del set) e un hi hat da 14″, cui aggiungeva a sinistra due crash medium thin da 17″ e 18″ e a destra, oltre a uno splash da 8″, un medium ride da 19″ e un medium crash da 16″

Fedele alla Zildjian anche nell’ultima fase della sua carriera, il musicista inglese era invece passato in tempi recenti alla DW. E a proposito di batterie, prima di utilizzare la Ludwig, Baker spesso aveva suonato su uno strumento che si era costruito da sé nel 1961, utilizzando il Perspex (o plexiglass): “Era come lavorare il legno, ma era liscio e non c’era bisogno di dover dipingere l’interno dei fusti con la vernice lucida. Così ho piegato i gusci e li ho modellati su una stufa a gas“. 

Questo set fatto in casa pare sia andato distrutto in una rissa sul palco con Jack Bruce e il suo basso ai tempi della Graham Bond Organisation…

I dissapori con il bassista pare abbiano contribuito nel 1968 alla precoce fine della folgorante esperienza con i Cream.
Ginger Baker viene chimato a far parte di uno dei primi ‘super gruppi’ della storia del rock, i Blind Faith, con un riluttante Clapton (scottato e shockato dall’esperienza appena conclusa), il tastierista Steve Winwood e il bassista Rick Grech, band durata una sola stagione e seguita dall’altrettanto breve esperienza degli Air Force, con Winwood, Graham Bond al sax e, a una seconda batteria, Phil Seaman, presto uscito dal gruppo perché ci si suonava troppo forte.
Il rapporto con quest’ultimo pare non sia mai stato quello maestro-allievo. Di certo per Ginger il navigato jazzman inglese era stato un idolo in gioventù e il viatico, quando lo conobbe, per approfondire la conoscenza  della musica africana, di cui Seaman era appassionato.

Nel 1971, seguendo la propia passione per i ritmi e la musica dell’Africa (e dopo una overdose di cocaina quasi fatale), Baker si trasferisce nel ‘Continente Nero’: acquista uno studio di registrazione ad Akeja, in Nigeria e collabora in studio e dal vivo con il grande Fela Kuti, campione del cosiddetto Afrobeat.
L’inquieto batterista nel 1974 decide però di rientrare in Inghilterra per dar vita ad altre formazioni poco fortunate e di breve vita, tra cui The Baker- Gurvitz Army con i fratelli Adrian e Paul Gurvitz e il cantante Snips. 

Le scarse soddisfazioni economiche e artistiche tratte dalle sue ultime iniziative convincono Baker ad allontanarsi dalla musica per tentare la fortuna nel mondo del polo.
Il batterista cerca di affermarsi sia come giocatore sia come imprenditore e allevatore, comprando una partita di cavalli in Argentina, rivelatisi però ben poco adatti a quella pratica sportiva. 

Il ritorno alla musica data al 1980 con due esperienze non indimenticabili di sei mesi ciascuna nelle band Atomic Rooster Hawkwind. Senza una band e con il fisco britannico alle calcagna (gli contestava il mancato pagamento di tasse arretrate per diverse centinaia di migliaia di sterline…), Baker lascia moglie e tre figli e si trasferisce nel 1983 con la sua nuova fidanzata in un paesino della Toscana per darsi alla coltivazione delle olive. 

Nel 1986 il produttore Bill Laswell lo rintraccia e lo convince a seguirlo a New York, dove lo fa suonare sul terzo disco dei Public Image Ltd di John Lydon. Backer ha un po’ per volta ripreso in mano la sua carriera, pubblicando diversi lavori a suo nome, collaborando inoltre in studio con la band hard rock Masters of Reality, con Andy Summers dei Police e creando nel 1994 il power trio BBM con Jack Bruce e il chitarrista Gary Moore.
Da segnalare anche i due album di jazz incisi nel 1994 e nel ’96 con il contrabbassista Charlie Haden e il chitarrista Bill Frisell.

Dopo aver vissuto per un po’ in California e in Colorado, a fine anni ’90 Baker si trasferisce in Sud Africa. L’evento mediaticamente più rilevante, quasi il suo canto del cigno, è andato in scena nel maggio 2005: la reunion dei Cream alla Royal Albert Hall di Londra per quattro concerti (immortalati anche un album live per l’etichetta Reprise), cui hanno fatto seguito a ottobre altre tre esibizioni al Madison Square Garden di New York.

Insieme alla figlia Nettie Ginger Baker ha scritto e pubblicato nel 2019 Hellraiser, the Autobiography of the World’s Greatest Drummer mentre nel 2012 è uscito il documentario di Jay Bulger Beware of mr. Baker.
Nello stesso anno il batterista si è ristabilito a Londra dove ha creato un nuovo quartetto e nel 2014 ha pubblicato per la Motema Music l’album Why?. Da anni sofferente di artrite e di croniche difficoltà respiratorie, Ginger Baker muore il 6 ottobre a 80 anni in un ospedale di Londra dopo un breve ricovero.    

Tantissimi i batteristi che sono stati influenzati dallo stile unico e originale di Ginger Baker, un jazzista nell’animo capace di cambiare le regole del gioco nel mondo del rock. Ne citiamo uno su tutti, Neil Peart dei Rush, che ha dichiarato: “Il suo modo di suonare era rivoluzionario: estroverso, primitivo e inventivo. Ha stabilito i confini di ciò che sarebbe stato il batterismo rock.”
E ogni batterista rock ha subito in un modo o nell’altro l’influenza di Ginger, anche se non se ne rende conto. Tra questi anche i batteristi heavy metal, visto che secondo alcuni critici i Cream sarebbero stati dei pionieri di tale genere: “La gente dice che i Cream hanno fatto nascere l’heavy metal. Se è così, avremmo dovuto abortire“.