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Claudio Trotta: il futuro dei live senza peli sulla lingua

Barley Arts è la sua creatura e lui la guida da 40 anni con l'entusiasmo di chi non si vuole arrendere alla deriva speculativa che ha colpito la musica dal vivo. Al di là dei gustosi aneddoti che lo arricchiscono, No Pasta, No Show (Ed. Mondadori) offre il punto di vista privilegiato sul music business di uno de

Barley Arts è la sua creatura e lui la guida da 40 anni con l’entusiasmo di chi non si vuole arrendere alla deriva speculativa che ha colpito la musica dal vivo. Al di là dei gustosi aneddoti che lo arricchiscono, No Pasta, No Show (Ed. Mondadori) offre il punto di vista privilegiato sul music business di uno dei suoi protagonisti principali, che ne parla con noi oggi in quest’intervista.

Dall’inizio nelle radio a metà anni settanta all’avvio dell’avventura Barley Arts con il primo tour di John Martyn nel maggio del 1979, fino al vasto e variegato catalogo di artisti offerto oggi ai palchi italiani, Claudio Trotta ne ha viste di tutti i colori ed è la necessità di dire la sua ad averlo spinto sulla sedia dello scrittore.

Con una forte motivazione a chiarire le cose per chi non ha abbastanza strumenti per capire, affrontando in maniera diretta problemi come il secondary ticketing, la chiusura delle strutture, il decadimento della cultura generale, ma cercando contemporaneamente di dare qualche consiglio a tutti quelli che hanno voglia, nonostante tutto, di gettarsi nella mischia con passione.

Dal punto di vista editoriale possono forse fare più notizia racconti come quello sulla diarrea di Van Morrison o la storia di Axl Rose che, in autostrada per andare al concerto voleva improvvisamente tornare indietro, del minibus spinto con Stevie Ray Vaughan sulla Salerno-Reggio Calabria o di quando Springsteen si era perso nelle strade milanesi, ma il vero senso del libro è un altro…

Claudio Trotta - No pasta no show

… è raccontare 40 anni di questo paese  – ci dice Trotta – e com’è cambiato dal punto di vista interno di chi – come me – ha fatto tante cose e continua ad amare di farle e allo stesso tempo è un consumatore di musica e di arte in generale.
Non è un libro di rivendicazioni… non a caso il capitolo più importante si chiama “Cosa farò da grande” e per metà è dedicato a spiegare la deriva speculativa e il fenomeno del secondary ticketing, ma l’altra metà è piena di amore e speranza per il futuro soprattutto rispetto a quello che sta succedendo nella nuova musica italiana.

A livello artistico ci sono alcuni progetti che mi piacciono e altri che mi piacciono di meno, ma il progetto in generale è nato assolutamente senza nessun sostegno da parte del mainstream della grande comunicazione “trasversale”, radio, tv e quotidiani…
La speranza che io ripongo nel libro alla fine è che questo mondo non si faccia corrompere intellettualmente, ma che continui capendo che l’indipendenza non è solo un obbiettivo quotidiano ma è soprattutto un’attitudine di vita creativa e originale che genera gioia, speranza e lavoro!

Quali sono i cambiamenti più rilevanti nel tuo mestiere da quando hai iniziato e secondo te è ancora possibile oggi per qualcuno inventarsi promoter?

Il libro è stato scritto proprio con lo spirito di raccontare come è cambiato tutto in questi 40 anni e per cercare di dare del coraggio a chi può pensare nel 2018, in un mondo totalmente diverso, di fare l’imprenditore.
Nel capitolo “Cosa farò da grande” racconto e spiego come la maggior parte della filiera della musica dal vivo internazionale ha abbandonato il ruolo imprenditoriale dedicandosi a lavorare, sotto stipendio e sotto padrone, mettiamola così, per conto della finanza.

Non è più un lavoro imprenditoriale ma finanziario, c’è una multinazionale che è allo stesso tempo proprietaria dei maggiori promoter e festival nel mondo, gestisce o possiede una serie di arene dove si fanno gli spettacoli con tutte le concessioni connesse. 

È proprietaria dei database dei fan club, proprietaria di management attraverso i quali controlla più di 500 artisti, di alcune agenzie, ha contratti con alcuni artisti come U2, Sting e altri per tutto il mondo controllandone le attività a 360 gradi dal punto di vista editoriale, manageriale, discografico… e in più ha fatto un merger con la più grande società di biglietteria del mondo che è Ticketmaster e che a sua volta è proprietaria di qualcosa come cinque o più siti che fanno secondary ticketing.

Con Bruce Sringsteen, 2006

Con Bruce Sringsteen, 2006

Beh, è evidente come questa non è più impresa ma è finanza, visto che parliamo di una società quotata in borsa e che ha – alla luce del sole – debiti enormi in crescita ogni trimestre ma che però, a fronte di una serie di annunci relativi a tour, acquisizioni e quant’altro, vede il proprio titolo spesso e volentieri crescere, con shareholder che magari prendono anche dei dividendi e gente che compra azioni.
Questo non ha nulla a che fare con l’imprenditoria ed è pura finanza.

Quindi, è estremamente complicato per un giovane o meno giovane decidere adesso di cominciare a fare l’imprenditore, ma se proprio lo vuole fare il consiglio – che è il mio da sempre – è quello di dedicarsi a una nicchia, appassionarsi a quella nicchia, farla crescere e poi andare avanti.

Però è un mondo dove, quando ho cominciato io, chi vendeva i biglietti lavorava per chi organizzava i concerti, ora è esattamente il contrario. Chi organizza i concerti lavora per chi vende i biglietti.
In Italia, per dirne una, da una parte c’è Live Nation che, ho già spiegato, ha fatto il merger con Ticketmaster, dall’altra c’è Eventim, la proprietaria di tutti quanti, che ha rilevato la maggioranza delle quote delle attività di D’Alessandro & Galli, Salzano, Pieroni e la Vivo, quindi queste persone lavorano sostanzialmente per una società che vende biglietti.

Il mondo si è rovesciato… Alla fine dipende da come si vuole fare il mio mestiere: reputo che farlo come l’ho fatto io in questi 40 anni per altri 40 anni sia altamente improbabile, ma… spero di essere smentito!

Claudio Trotta

Rispetto alla recente legge sullo spettacolo, se ne avessi il potere tu cosa faresti per cambiare le cose?

Hanno apparentemente promulgato per la prima volta una legge sulla musica popolare, ma sappiamo tutti che fino a quando non ci saranno i regolamenti applicativi è aria fritta, quindi…
E faccio presente che un anno e mezzo fa lo stesso ministero aveva fatto un decreto legge che diceva che si sarebbero puniti i contravventori al divieto di secondary ticketing con una sanzione di 2000 euro, ma quel decreto non è mai stato messo in pratica, quindi fino adesso è stato solo oggetto di titoli di giornali, di qualche intervista radiofonica e televisiva, ma è il nulla totale, come purtroppo tante altre cose che succedono in Italia…

È evidente che quello che bisognerebbe fare è intervenire alla fonte e quindi ovviamente cercare di fare qualcosa i cui effetti magari non si vedono immediatamente ma che è fondamentale.
Quindi, intervenire nella formazione professionale, nell’informazione, creare e alimentare un sistema di educazione ed emulazione della musica dal vivo, che è sostenuto unicamente da alcuni benemeriti come il CPM a Milano e altre strutture simili in altre parti d’Italia.

E investire dei soldi, che ci sono… li trovano per ogni cosa ma mai per questo… per reali strutture intermedie, non certo per i mega-concerti ma per quelli da 1000 a 5-6000 persone, polivalenti ma dedicate e costruite per la musica popolare in tutte le sue sfaccettature.

Nel libro fai riferimento anche alla chiusura dei locali storici che sembra aver messo in sofferenza soprattutto un livello medio di qualità e livello artistico, rendendo difficile l’emergere di nuove proposte…

Il problema è ancora più ampio… palpabile in una città come Milano e in tante altre città d’Italia… è la chiusura degli spazi dell’arte, della musica, quindi i negozi di dischi, le case discografiche storiche italiane che non esistono più… per fortuna sostituite da almeno una trentina di etichette indipendenti.

Queste etichette mostrano come ci sia comunque una nuova imprenditorialità, giovane, che è stata capace di esistere, resistere e di proporre nuovi artisti, quindi, chapeau.
La chiusura dei locali, dei teatri, di tensostrutture, sono tante le chiusure che fanno male al lavoro, perché il rischio sempre presente – e che è stato molto un errore della sinistra – è quello di non far capire che che la musica o l’arte non sono un di più, una cosa super-colta che va preservata in quanto tale.

AC/DC, 2009

AC/DC, 2009

E a maggior ragione diventa ancora più pesante subire tutta questa terrificante omologazione da parte delle multinazionali di cui sopra, che spingono l’acceleratore sui mega-eventi per sfruttare le persone nella maniera più bieca, facendo pagare una bottiglia d’acqua troppi soldi, dando servizi pessimi, facendo pagare i biglietti cifre spropositate e quant’altro.

La musica e l’arte servono a vivere meglio, danno benessere psicofisico, creano lavoro, creano opportunità, sostengono famiglie! È evidente che è un sistema che ha perso troppi pezzi, in un paese dove comunque non è mai stata concepita la musica in maniera degna neanche dai media e dai consumatori.

Bon Jovi, 2011

Bon Jovi backstage, 2011

Riprendendo il discorso sul lavoro delle etichette indipendenti, c’è chi pensa che ci sia un substrato di tanti nuovi giovani artisti che oggi hanno molta più difficoltà a uscir fuori, a farsi conoscere. Che ne pensi?

Bah, io credo esattamente il contrario, per dirti la verità. Oggettivamente, è molto più semplice adesso per uno sconosciuto farsi conoscere, e sarebbe anche ora di cominciare a dirlo perché è diventata una scusa per prostituirsi in maniera intellettuale e peggio pur di avere un po’ di visibilità.

Tanto per cominciare, produrre un album adesso costa infinitesimamente meno di una volta. Secondo, ci sono infinite più possibilità di farsi conoscere, perché c’é la rete… è vero che il sistema delle radio commerciali è sostanzialmente corrotto intellettualmente e forse anche di più, però esiste comunque uno scenario di radio locali dove c’è spazio.

Realizzare un video in casa propria non costa niente, ormai con i telefonini si fanno cose di grandissima qualità. Suonare è più problematico di quanto era 10-15 anni fa? Sì e no. Perché c’è comunque un mondo di gente che suona ovunque, nei locali, nei bar, nelle feste di piazza.
Bisogna avere le palle e la voglia di farlo senza pensare che se non si guadagnano soldi nei primi tre, quattro, cinque anni o se non si diventa famosi in sei mesi allora si è dei disperati.

E inoltre non è detto che tutti quelli che pensano di essere degli artisti siano degli artisti. Ci sono tanti che sanno cantare, che sanno suonare, ma che non sono artisti. E quindi, francamente, possono anche fare un altro lavoro e liberare lo spazio agli altri, che è meglio.
Quindi, io non mi associo a chi si lamenta o piange, perché alla fine diventa un alibi per accettare di partecipare a qualsiasi porcata dove viene snaturato e utilizzato per interpretare una parte più o meno melodrammatica.

Ribadisco, il problema è culturale, però, le giovani generazioni di venti o trent’anni fa volevano esprimersi, non volevano diventar famose. Negli ultimi vent’anni, anche per il diffuso modello berlusconiano, poi diventato renziano, quello per cui è più importante apparire che essere, se si pensa più a quello che alla qualità allora è ovvio che bisogna andare a fare X-Factor o cose simili… ma se uno crede in quello che fa adesso ci sono innumerevoli più possibilità di quante ce n’erano 20 o 30 anni fa.

Claudio Trotta e Bruce Cockburn

Il giovane Claudio Trotta con Bruce Cockburn © Photo by Guido Harari su gentile concessione di Barley Arts

Pensi quindi che ci sia un decadimento nel livello della cultura generale?

Sì, ma è sempre stato così. Se pensi ai gestori dei locali, ad esempio, non è così fondamentale che ci sia un bell’impianto, che ci sia un’illuminazione degna di questo nome, perché… chi se ne frega! Tanto la gente viene, mangia, beve e che sentano bene o male al proprietario non gliene frega niente.

Da questo punto di vista all’estero c’è molta più cultura, ma l’altra faccia della medaglia è che però dal punto di vista della sicurezza spesso sono meno seri di noi in Italia, perché in Germania o Scandinavia, Inghilterra, Francia, Olanda, Belgio ci sono locali pericolosi che noi in Italia non consentiamo.

Nel libro ricordi di aver avuto la possibilità di offrire un pubblico anche a personaggi sconosciuti, di investire su artisti ancora lontani dal diventare famosi. Questo rischio una struttura come Barley Arts se lo può permettere ancora oggi?

Assolutamente sì! Lo faccio tutti i giorni nella mia vita e lo farò sempre. Non vedo perché non dovrei continuare a farlo, è il senso principale della presenza sulla Terra… cioè, cosa siamo qui a fare? Siamo qui per alimentare, diffondere, condividere, conoscere.
Se qualcuno pensa che siamo qui semplicemente per diventare più famosi, più potenti, più ricchi, beh… it’s not my cup of tea!  Peggio per loro.