La storia degli Open Reel Ensemble inizia nel 2009 a Tokyo, quando Ei Wada, assieme ad alcuni amici e compagni di università, decide di portare sul palco un’idea nata per caso: trasformare i vecchi registratori a bobina in strumenti da suonare.
Wada, da adolescente, aveva iniziato a manipolare due macchine ricevute dal padre, tecnico radiofonico. Un incidente – inciampando toccò le bobine a mano – gli rivelò che quei movimenti potevano produrre suoni inediti.
Da lì nacque la ricerca che avrebbe dato vita a un vero e proprio ensemble, con Haruka Yoshida e Masaru Yoshida, e inizialmente anche Kimitoshi Sato e Takumi Mamba (usciti nel 2015).
La loro prima affermazione arrivò presto: un Excellence Award al Japan Media Arts Festival, le performance al NTT InterCommunication Center e ad Ars Electronica, fino alle collaborazioni con la moda (Issey Miyake) e con musicisti di livello assoluto come Ryuichi Sakamoto e Yukihiro Takahashi.
Il mondo del “magnetikpunk”
Il collettivo ama definire il proprio universo sonoro come “magnetikpunk”, una visione in cui la tecnologia magnetica si trasforma in linguaggio arcaico e futuro allo stesso tempo. I loro registratori diventano strumenti di folklore magnetico, manipolati con archetti, bacchette o persino bastoncini di bambù, generando suoni percussivi, stridori e timbri che ricordano tanto la musica industriale quanto i gamelan indonesiani che impressionarono Wada da bambino.
Nei concerti non si assiste solo a un’esecuzione musicale, ma a una performance multimediale: macchine, cavi e bobine si trasformano in corpi scenici che respirano insieme agli interpreti. Il risultato è una fusione di arte sonora, artigianato elettronico e riflessione ecologica, perché il progetto mette al centro il riuso di tecnologie destinate allo smaltimento.
Album, collaborazioni e riconoscimenti
Nel 2012 il gruppo pubblica il primo album, Open Reel Ensemble, sotto l’etichetta diretta da Sakamoto, con ospiti come Etsuko Yakushimaru, Money Mark e Gota Yashiki. Seguiranno Tape and Cloth (2013) e Vocal Code (2015), lavori che ampliano la loro ricerca fino a includere la voce come materia magnetica da trattare.
Negli anni, oltre a collezionare presenze nei festival più importanti – dal Sónar di Barcellona al MUTEK di Montréal, passando per l’Ars Electronica di Linz – hanno collaborato con nomi come Shugo Tokumaru, Kaela Kimura e persino con il progetto pop Zutomayo, dove appaiono come misteriosi “reel players” sul palco.
Nel 2018 il collettivo ha ricevuto una menzione d’onore e lo STARTS Prize al festival Ars Electronica, per il contributo dato all’incrocio tra scienza, tecnologia e arte.
Magnetize e nuove forme di sperimentazione
L’ultimo capitolo discografico porta il titolo “MAGNETIZE” (2023), uscito su Bandcamp come audio e libro digitale. L’opera conferma la volontà di fondere linguaggi e media, accompagnandosi a un videoclip in cui bobine e nastri diventano protagonisti visivi oltre che sonori.
La missione del gruppo resta chiara: continuare a esplorare i limiti espressivi delle macchine a bobina, trasformandole di volta in volta in strumenti sempre diversi, a metà tra installazione, concerto e rito tecnologico.
Il fascino degli Open Reel Ensemble risiede nella capacità di unire passato e futuro: la polvere magnetica dei nastri come memoria materiale e, allo stesso tempo, il gesto performativo come spinta verso nuovi immaginari.
In un’epoca dominata dal digitale (di cui comunque anche loro fanno a volte uso con strumenti complementari), la loro pratica sembra un invito a non dimenticare il potenziale nascosto degli oggetti “obsoleti”, rianimati fino a diventare materia viva di una nuova musica.










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