Oggi siamo a tu per tu con Iarin Munari, uno dei migliori batteristi italiani, il quale ha da pochissimo pubblicato il suo primo album solista intitolato “I’M“.
Ciao Iarin, benvenuto su Musicoff! Ti va di riassumere a beneficio dei nostri lettori le tappe fondamentali della tua formazione musicale?
Buongiorno a te Alfredo e buongiorno a tutti i lettori di Musicoff. Sono stato molto fortunato ad avere una famiglia che mi ha sostenuto in questa passione e dei maestri che mi hanno tirato su facendomi appassionare alla musica e alla batteria. I miei studi musicali sono cominciati a 16 anni con Lele Barbieri alla AMF di Ferrara e sono poi proseguiti con Marco Volpe a Milano. Contemporaneamente studiavo con Nunzio Di Corato al Conservatorio di Rovigo.
E con Ellade Bandini, ma senza mai frequentare dei corsi veri e propri: Ellade m’invitava nello studio di Andrea Polidori, straordinario batterista ferrararese, dove studiava e preparava i brani dei tour di De Andrè, Branduardi o di qualche artista con cui stava per lavorare. Stavo ore ad ascoltarlo e qualche volta suonavamo a due o tre batterie. Ancora oggi ci sentiamo quasi quotidianamente e rimane uno dei miei maestri e consiglieri più importanti oltre che un grande amico.
Quali invece i momenti cruciali della tua carriera professionistica?
Dopo gli inizi con le prime band, con cui si facevano regolarmente brani originali, mi chiamò Gilberto Martellieri, pianista ed arrangiatore ferrarese, purtroppo recentemente scomparso, che aveva diretto le band di De Andrè, Mia Martini, Fossati e molti altri. Era il 1996 e avevo 21 anni. Mi propose di far parte del tour di Franco Fasano, un autore che era appena uscito con un disco a suo nome. Feci tutte le prove, ma qualche giorno prima della generale mi presi una bella broncopolmonite con ricovero ospedaliero. Mi sostituì in quelle prove proprio Andrea Polidori. Il tour per problemi organizzativi non partì mai, ma fu l’anteprima di tanti altri lavori diretti da Gilberto. Tra questi Gigliola Cinquetti nel ’98, Roberto Vecchioni dal ’99 al 2008, Paolo Vallesi dal 2001 al 2003 e molti altri in studio e live.
E oltre al pop? Che suonavi tra un tour e l’altro?
Nel frattempo suonavo anche jazz e funk con progetti della mia zona. Nel 94/95 suonavo con una big band che si chiamava Sax Society e una band di dixieland, la Giordano Balboni Jazz Band, con cui facemmo un piccolo tour in Ungheria. Avevo anche già fondato i Free Jam, band funk che esiste tuttora. Erano anni in cui quasi tutti i locali facevano musica, i tour erano più lunghi di adesso, gli artisti erano tanti e la discografia esisteva ancora. Anche se i mezzi di comunicazione non erano quelli di oggi, esistevano molte più opportunità e, a mio avviso, la musica godeva in generale di molto più rispetto.
A proposito dei Free Jam, con l’album “What About the Funky?” (2012) avevi già sperimentato il duplice ruolo di batterista e produttore. Cosa ti ha spinto ora a produrre un disco a tuo nome?
La mia attrazione per la musica mi ha portato fin da subito ad avvicinarmi, oltre che alla batteria, anche alla chitarra. Il mio desiderio di suonare è sempre stato strettamente legato all’esigenza di esprimere e/o nutrirmi di emozioni. Uno strumento armonico mi permetteva perciò di avere le possibilità espressive che i tamburi non concedono e grazie a questo mi é venuto naturale scrivere musica molto presto. Attorno ai primi anni 2000 cominciai ad appassionarmi anche all’home recording. Comprai le prime attrezzature e iniziai con i primi esperimenti di registrazione. Piano piano la cosa divenne sempre più professionale fino ad arrivare a curare la produzione di alcuni giovani artisti.
Nel 2009 persi mio padre e da quel momento cominciai a sentire una forte esigenza di realizzare qualcosa di mio. Era indispensabile per sfogare tante emozioni ed era anche un modo per rendergli omaggio con la cosa più profonda in mio possesso, la musica. Nacque così nel 2012 “What About the Funky?” dei Free Jam ed allo stesso modo anche “I’M”, il primo disco a mio nome, uscito nel maggio di quest’anno. Entrambi sono disponibili sul mio sito web.
Quale strumento usi per comporre e arrangiare?
La chitarra.
E che batteria hai utilizzato per registrare “I’M”? Mi interessa soprattutto sapere che combinazioni di pelli hai scelto per ottenere un suono così definito, con tamburi dall’intonazione generalmente bassa, senza troppe risonanze, ma ricchi di ‘corpo’.
Ho usato diversi set. Le due ballad, “Camilla” e “Towards That Light“, sono registrate con un set Ludwig Standard del ’69. Cassa 20″ x 14″ (con pelle risonante non forata), tom 12″ x 8″, timpano 14″ x 14″ con rullante Bronze Beauty Super Sensitive 14″ x 5″ dell’80, su cui ho montato tutte Remo Ambassador sabbiate come battenti e Diplomat Clear come risonanti. La cassa montava una Remo Powerstroke 3 Clear. Sul brano “Afrìta” ho usato tamburi misti Ludwig Classic Maple: la cassa è una 22″ x 18″ con una Remo Powerstroke 3 sabbiata del mio set del 2006, mentre tom da 10″ e timpano da 16″ appartengono al set ‘residente’ dell’Over Studio di Cento (FE), con pelli Remo Emperor Clear come battenti e Diplomat Clear come risonanti. Un rullante Gretsch degli anni ’80 più un rullante da 10 pollici artigianale, posizionato al posto del secondo tom, entrambi con Ambassador sabbiate come battenti e Diplomat Clear come risonanti. Infine per i brani “Settimo“, “Fifth Wave” e “Twilight” ho usato un set formato da tamburi Gretsch degli anni ’80 (cassa 22″ x 16″, tom 10″ x 7″ e 12″ x 8″), il rullante Ludwig Bronze Beauty Super Sensitive da 14″ x 5″ dell’80 e timpano 16″ x 13″ Ludwig Classic Maple del 2006. Tutte le pelli sono Remo Ambassador sabbiate battenti e Diplomat Clear risonanti, a eccezione della cassa che montava una Powerstroke 3 sabbiata.
Ti sei avvalso di qualche accorgimento particolare a proposito della ripresa microfonica?
Oltre a una microfonazione tradizionale, ho chiesto al fonico Angelo Paracchini di utilizzare anche diversi microfoni ambientali per riprendere il meraviglioso suono di tutta la camera di ripresa dell‘Over Studio. Nella fase di mix ho usato molto suono ambientale per dare corpo e profondità ai tamburi, lasciandoli suonare il più possibile, senza nessuna sordina o gate. L’obiettivo era un suono aperto e tradizionale. Una piccola curiosità: in “Settimo” ho tenuto aperta un’ulteriore traccia ‘ambientale’, quella della batteria ripresa da uno dei microfoni del pianoforte che era nella camera adiacente alla mia, e il cui canale era rimasto accidentalmente aperto. Il suono arrivava nella cassa armonica del pianoforte dopo avere attraversato una parete di vetro, acquisendo un filtro di frequenze particolarissime che mi è molto piaciuto e che è stato mixato al suono generale della batteria. Angelo Paracchini ha curato tutte le riprese e Nicola Fantozzi il mastering. Entrambi hanno fatto un lavoro davvero straordinario.
Un discorso a parte meritano i piatti: so che hai contribuito alla realizzazione di alcuni modelli per la UFIP…
Sì. Ho registrato tutto il CD con il set di piatti che ho ideato assieme a Damiano Tronci. Ormai più di 5 anni fa chiamai in azienda spiegando che avevo in mente un suono di crash corto, brillante ma scuro allo stesso tempo. Avevo in mente una sorta di incrocio tra i già esistenti Blast e i Natural. Ci confrontammo un po’ e ben presto i primi prototipi furono nelle mie mani. Li testai in diversi generi e in diverse location. Dal piccolo club al grande palco dei tour. Sempre con risultati a dir poco fantastici e raccogliendo davvero tanti consensi di chi, tra il pubblico e tra i musicisti con cui suonavo, li stava apprezzando. L’azienda ha poi ufficializzato e messo in produzione questi piatti pochi mesi fa, presentandoli al NAMM 2018 col nome di Blast Extra Dry.
E su “I’M” che modelli hai utilizzato?
Nel disco ho usato due crash Blast Extra Dry da 18″ e un ride Blast Extra Dry da 21″. A questi ho aggiunto un charleston da 14″ Class del 2006 e un Fast Crash Class da 18″ del 2016.
Passando ai brani dell’album, da un punto di vista batteristico cattura sin da subito il groove funkeggiante di “Settimo“, impreziosito da un bell’assolo su un vamp. Da dove trai ispirazione per i tuoi groove? E per eseguire un assolo hai un ‘percorso’ preparato in mente o ti lasci andare completamente all’improvvisazione?
Ho un grande amore per il funk e quindi l’ispirazione più grande dal punto di vista batteristico arriva dalle leggende che hanno inventato questo genere. Parlo di Clyde Stubblefield, Jabo Starks, Zigaboo Modeliste, Bernard Purdie, James Gadson, David Garibaldi. Nel caso specifico di “Settimo” il groove, oltre ad avere le basi sugli ascolti che ti ho appena citato, si appoggia come accenti al tema e non alla ritmica di background. Paradossalmente nella maggior parte dei casi, quando scrivo canzoni, la batteria è l’ultimo strumento a cui penso per cui mi viene naturale ‘ragionarla’ in funzione di ciò che esiste già del brano. Raramente una canzone per me parte dai tamburi. E in questo disco non è mai successo.
L’assolo invece lo concepisco come un racconto improvvisato dentro alla storia del brano. E la storia è il vamp e il tema. In quel momento cerco di non pensare a nulla, lasciando che le idee escano nel modo più naturale possibile. La realtà è che poi se lo suono tante volte in tempi ravvicinati mi ritrovo a ‘dire’ spesso cose simili, ma comunque senza mai averle programmate.
“Afrita” è un bel brano in equilibrio tra Italia e Africa: come nasce?
Ho scritto tutti i brani di questo CD con la chitarra, per il cui il processo è il seguente: esce un’idea di riff, di un’armonia o di un tema. La/le fermo registrandole sul telefono e quando è quasi completa comincio con il provino multi-traccia su Protools. In questo caso stavo cercando un’idea per rendere omaggio all’ Africa. Appena è arrivato il primo riff di chitarra ho sentito questa africanitá mista alla mia cultura europe,a che ho cercato di continuare a sviluppare con il resto dei temi. Da qui il titolo “Afrìta“, unione delle parole Africa e Italia, e da qui la scelta di usare un testo in lingua nigeriana Igbo. Una volta registrato il provino con le chitarre e una darbouka, mi sono messo alla batteria sperimentando varie idee. All’inizio m’ispiravo a Gary Novak sul brano “Space” del disco “Paint The World” della Elecktrik Band II di Chick Corea. L’idea del groove definitivo di batteria è nata curiosamente in studio mentre registravo. La parte può sembrare un po’ strana, ma in realtà si tratta di un bembè, ritmo del folklore afro-cubano, senza cassa sull’uno e un pochettino orchestrato sul set. Niente di più.
“Camilla” è una ballad di sapore quasi nordeuropeo (ricorda certe produzioni ECM) in cui accompagni con le spazzole, usate anche in “Towards that Light“, brano in tre caratterizzato da un bel crescendo. Quali sono i tuoi modelli di riferimento per quanto riguarda le spazzole? Ci sono degli ‘spazzolatori’ che ti colpiscono anche di fuori del mondo del jazz?
Come ogni brano di questo CD, anche “Camilla” e “Towards That Light” nascono dall’esigenza di esprimere un’emozione ben precisa. Entrambe sono canzoni di addio a qualcuno di caro che ho perso di recente. Una dedica tradotta in note. Le spazzole rappresentano per me il sound ideale per questi due brani. I miei riferimenti in questo caso sono i grandi del jazz. Philly Jo Jones, Paul Motian, Mel Lewis. E Peter Erskine, una delle mie più grandi ispirazioni in generale.
“Twilight” è un brano dalla ritmica brasileggiante. Anche in questo caso ti chiedo quali sono i tuoi principali riferimenti batteristici…
“Twilight” è la versione suonata con la band dei temi di “Sunrise” e “Sunset“, che sono i brani di apertura e chiusura del CD. Sono dei temi che scrissi per un film e per questo arrangiati con chitarra e archi. Film che non uscì mai, perciò decisi di usarli in questo mio progetto. L’alba e il tramonto come apertura e chiusura di una giornata di vita o metafora di un periodo di vissuto che ho deciso di raccontare. “Twilight” è diventata quindi un ibrido delle due composizioni dal punto di vista armonico e melodico. Buona parte del groove del tema e delle improvvisazioni si basa su un ritmo di partido alto orchestrato tra cassa, rullante e bordi. Molto di ciò che conosco della tradizione brasiliana arriva dai dischi e dai libri di Duduka da Fonseca e di Peter Erskine.
“Fifth Wave” è un brano in 5/4, nel cui assolo ricorri ad alcune ‘illusioni ritmiche’.
“Fifth Wave” è stato il più grande esperimento in questo disco. La sua creazione è stata un motivo di approfondimenti e di studio, uno di quei brani in cui ‘devo stare lì con la testa’, insomma. Arrivavo da un periodo di difficoltà di vita che mi aveva fatto ‘zoppicare’ il morale, ma stavo entrando in un momento di quiete. Ho deciso di rappresentare queste sensazioni con questo tema, uscito spontaneamente in 5/4. La A decisamente ‘zoppicante’, con la batteria che si appoggia al riff di background sviluppato su due misure. E la B più aperta armonicamente e più dritta ritmicamente, pur restando in 5/4. Un po’ come il mare impervio in tempesta seguito dalle onde piatte di un mare ‘buono’. Ecco perché “Fifth Wave“.
Qual è in genere il tuo approccio ai tempi dispari?
Il mio approccio cerca di essere il più musicale possibile. Suono la batteria pensando sempre al tema e lasciandomi ispirare dalle sensazioni di tensione e risoluzione che creano le modulazioni ritmiche. In questo assolo passo attraverso diverse modulazioni: il 2 nel 5, il 3 nel 5 e il 4 nel 5. Ma, aldilà della matematica, la grande difficoltà rimane quella di riuscire a sviluppare discorsi, improvvisazioni e interplay su una struttura non proprio ‘amica’ come questa.
Sei anche un apprezzato didatta: in quali strutture insegni e quali sono i punti cruciali del tuo sistema didattico?
Ho due scuole di musica. La IM Drums School a Fiesso Umbertiano (RO), scuola di batteria e luogo in cui accolgo studenti da tutta la penisola, e la Making Music School, scuola per tutti gli strumenti a Occhiobello (RO). Da un punto di vista prettamente batteristico, quando mi relaziono con un nuovo allievo la mia più grande attenzione sta nel capire quale sia il suo livello di espressione, quali i suoi eventuali buchi culturali e strumentali, e soprattutto che obiettivi abbia. Una volta capito questo costruisco un percorso personalizzato per ognuno di essi. In entrambe le strutture faccio il possibile perchè si respiri l’aria di condivisione, lo spirito di ricerca, di squadra, di crescita umana e sociale che può regalare la musica. Qualcosa che ci proietta nel futuro tenendoci fortemente legati alle nostre radici del passato. Abbiamo la grande fortuna e il privilegio di potere fare arte. Dobbiamo adoperarci per rispettarla e farla rispettare perché è a mio avviso una delle poche cose che ci salva.
Prima di chiudere permettimi di ringraziare con tutto il cuore tutti quelli che hanno contribuito con talento e passione alla realizzazione di questo mio lavoro, così importante per me. Alfonso Santimone, pianoforte e tastiere; Nick Muneratti, basso; Daniele Santimone, chitarre; Piero Bittolo Bon, sax alto, tenore e baritono; Enrico Di Stefano, sax alto; Antonello Del Sordo, tromba; Luca Fabrizio, percussioni. I fonici Angelo Paracchini e Nicola Fantozzi dell’Over Studio di Cento (FE), Mike 3rd del Prosdocimi Recording Studio di Carmignano di Brenta (PD), Nicola Leprotti e Nico Dalla Vecchia del Modulab Recording Studio di Casalecchio di Reno (BO).
Grazie della disponibilità, Iarin!
Grazie a te Alfredo, e un saluto a te a tutti gli amici di Musicoff.
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