Se pronunci la parola subwoofer in un gruppo di persone appassionate di Hi‑Fi, c’è una discreta probabilità che qualcuno – anche l’audiofilo con tre ripiani di necessori – se ne esca con un qualcosa del tipo: “Ti piace esagerare”.
E qui entra in scena il solito pacchetto di pregiudizi, completo di manuale d’istruzioni non richiesto.
Il subwoofer, nell’immaginario collettivo di un nutrito gruppo di “guru de noantri“, purtroppo è ancora associato a:
- “Bassi che invadono la stanza” (e invadono anche la pazienza del vicinato).
- “Roba da discoteca” o, al massimo, da home theater con esplosioni e ruggiti di dinosauri.
- “Car audio… in salotto!”, magari con l’idea che il fine ultimo sia far vibrare i bicchieri nella credenza.
- “Trucco dei negozianti” per venderti una scatola in più (spoiler: a volte la scatola in più serve davvero, ma non per il motivo che pensi).
- “Un impianto serio è 2.0, punto”: come se aggiungere un componente dedicato fosse automaticamente una dichiarazione di guerra al buon gusto.
Il problema è che questi ragionamenti partono da un equivoco: confondere il subwoofer con un “pompatore di bassi”. E – ancor più mistificante – pensare che i bassi che escono dai propri diffusori siano già perfetti e che rispettino esattamente le specifiche che si leggono nei datasheet (ma bisognerebbe saperle interpretare, non solo leggere). Nella realtà, sono davvero pochi (e molto costosi) i diffusori che scendono in certi range con sufficiente potenza, controllo e definizione; la maggior parte, inizia a curvare e a frenare abbastanza prima.
In realtà un subwoofer è, prima di tutto, un diffusore specializzato nel tratto più difficile da riprodurre in ambiente domestico: la gamma bassa. E la parola chiave, qui, non è “quantità”, è controllo.
Perché il basso è la parte più ingrata? Perché in casa non ascolti solo i tuoi diffusori: ascolti anche la stanza. E la stanza, sulle basse frequenze, non si limita a “colorare” un po’ il suono: può riscriverlo completamente (e spesso non in meglio).
È il regno delle risonanze (resonances), dei picchi (peaks), dei buchi (nulls), delle onde stazionarie (standing waves) e dei modi (room modes). Traduzione pratica: in un punto del divano hai un basso enorme, mezzo metro più in là sparisce. E non perché il brano sia cambiato: perché sei entrato in un punto in cui i bassi si cancellano per determinate leggi di fisica acustica.
È qui che il subwoofer, se integrato con criterio, smette di essere un oggetto “da tamarri” e diventa qualcosa di assolutamente raffinato: un modo per gestire meglio l’interazione tra impianto e ambiente, alleggerire il lavoro dei diffusori principali, migliorare la definizione del basso e – cosa che sorprende molti – rendere più puliti anche medi e voci. Sì, anche le voci: perché quando la parte bassa è confusa, spesso maschera e sporca tutto quello che sta sopra.
Quindi no: aggiungere un sub non significa “mettere più bassi”. Significa provare a mettere ordine dove, di solito, regna il caos. E se l’ordine ti sembra un concetto poco rock’n’roll, tranquillo, un colpo di grancassa ti convincerà.
Anche possedendo diffusori che scendono sotto i 30Hz, questi, per fattori di classico posizionamento degli speaker, raramente saranno posti là dove le frequenze basse interagiscono al meglio possibile con la stanza nella posizione di ascolto (sottolineo varie volte “nella posizione di ascolto”, perchè cambiandola, cambia tutto). Il sub (o 2 sub) ci dà la possibilità di fare quello che non possiamo fare con i diffusori: avere l’emissione delle basse dove suonano meglio, potendolo posizionare più o meno dove vogliamo.
Vale sia con bookshelf che torri
Questo discorso vale sia se hai diffusori da scaffale sia se hai diffusori da pavimento. Cambia il punto di partenza, ma non la logica.
- Con i bookshelf spesso il vantaggio più immediato è l’estensione: arrivi dove fisicamente non possono arrivare.
- Con le torri, più spesso, il vantaggio è il controllo: puoi ottenere un basso più uniforme e “leggibile” in ambiente e, in certi casi, alleggerire i woofer principali dove la stanza tende a fare danni.
In entrambi i casi, l’idea rimane la stessa: separare due esigenze che altrimenti litigano. Posizioni i diffusori principali per scena e gamma media, e posizioni il sub per far funzionare davvero la gamma bassa.
Il sub non è “taglia unica”: come sceglierlo senza farsi abbagliare
Ovviamente, per ogni tipo di diffusore e di ambiente va scelto con oculatezza il subwoofer corretto. Le variabili che contano davvero sono poche, ma pesano parecchio:
- Caricamento: chiuso (sealed) vs bass reflex (ported).
- In generale, un sealed viene spesso preferito per integrazione più lineare e comportamento più controllato, specie se l’obiettivo principale è la musica.
- Un reflex può dare più energia in basso a parità di dimensioni/potenza, ma richiede più attenzione su taglio e posizionamento per non sommare code e rigonfiamenti con la stanza.
- Quanto scende davvero: non basta dichiarare un numero, conta come ci arriva e con quanta pulizia, e soprattutto quanto è gestibile nel tuo ambiente.
- Dimensione del cono: non è una gara a chi ce l’ha più grande; conta il progetto completo (driver, escursione, amplificazione, mobile).
- Stanza e distanza d’ascolto: volume dell’ambiente, vicinanza a pareti/angoli, possibilità di posizionamento.
In generale è spesso meglio affidarsi ad aziende che hanno costruito una reputazione solida proprio sui subwoofer, perché qui filtri, controlli e comportamento reale contano quanto (se non più di) potenza e dichiarazioni da brochure.
Marchi come REL o SVS vengono spesso citati proprio perché trattano il sub come un prodotto “centrale”, non come un accessorio.
I vantaggi “veri” (quelli che senti in musica)
Partiamo dal più ovvio, ma senza banalizzarlo: l’estensione in basso. Non è solo questione di scendere di più, è questione di farlo con controllo, senza far collassare il resto. Non stiamo parlando solo dei rari casi di note e strumenti che scendono sotto i 40Hz, ma anche del range a partire dai 100Hz, dove magari con i vostri diffusori qualcosa sentite, ma non come dovrebbe essere. Quel povero contrabbassista, con il sub, fa finalmente un “passo avanti” invece di rimanere in ombra dietro il palco.
Poi c’è la dinamica: quando arrivano le botte (grancassa, synth sub, organo, basse elettroniche), un sub dedicato può gestire quell’energia senza costringere i diffusori principali a lavorare fuori comfort zone. Risultato: più headroom, meno affanno, meno “tutto grosso uguale”.
Infine, la pulizia generale: spesso si pensa che il sub “sporchi” la musica; più spesso è l’opposto, perché toglie ai diffusori principali una parte di lavoro che tende a generare confusione e code non volute.
I miglioramenti si sentono però anche fuori dallo spettro specifico del sub. Ad esempio, le voci stanno nei medi, certo. Ma la loro intelligibilità e naturalezza dipendono moltissimo da quanto la zona bassa/medio‑bassa è controllata: se lì sotto c’è rigonfiamento, mascheramento e rimbombo, la voce sembra più arretrata, meno a fuoco, meno “ferma”.
Un sub integrato con criterio può ridurre proprio quel tipo di confusione, facendo emergere la voce senza dover “tirare su” presence e acuti come se non ci fosse un domani.
Stesso discorso per chitarre, pianoforte, rullante: quando il basso non invade, il mix respira, e la percezione di dettaglio aumenta senza diventare tagliente.
Soundstage e imaging: il sub libera la scena
Il sub non è lì per allargare la scena come una bacchetta magica. Però può fare due cose molto concrete:
- se è fuori fase o troppo alto, può impastare e rendere l’immagine più instabile;
- se è integrato bene, può “liberare” la scena perché riduce l’effetto di mascheramento e di risonanza che schiaccia la profondità.
Traduzione: il soundstage non lo “regala” il sub. Te lo restituisce, se prima era sequestrato da un basso confuso e da una stanza che faceva quello che voleva.
Tutto avrà più “aria”, gli strumenti saranno posizionati più efficacemente, rispettando il mix originale. E aumenterà il senso di profondità, il sub allarga in questo senso la terza dimensione come nessun altro diffusore riesce a fare da solo.
Come regolare un subwoofer (senza diventare ingegneri acustici)
Qui la promessa è semplice: pochi passaggi, molto ascolto, zero magia.
Qualcuno dirà: impossibile settare un sub senza un microfono per la misurazione delle frequenze nell’ambiente di ascolto. “Nì”. Ovvero, sarebbe la situazione migliore, a patto di saper interpretare il tutto (no, non tramite i consigli sentiti su youtube). Ma ti assicuro che ci si può arrivare anche ad orecchio, almeno ad un ottimo compromesso. Per affinare, c’è sempre tempo.
Posizionamento: la tecnica del crawling
La logica del “subwoofer crawl” è tanto poco elegante – può anche far sorridere – quanto efficace: metti temporaneamente il sub nel punto d’ascolto, fai partire un contenuto con basso continuo, e poi ti muovi a carponi nei punti della stanza per capire dove il basso è più uniforme e controllato, in poche parole, dove suona meglio. Segna il punto e posiziona lì il sub.
Non è una cerimonia tribale: è un modo pratico per sfruttare il fatto che la stanza cambia radicalmente la risposta in basso a seconda di dove metti sorgente e ascoltatore. È matematica: stai rispettando le lunghezze d’onda giuste per la tua posizione di ascolto.
Esiste anche un posizionamento alternativo e interessante da provare: quello near field, ovvero il sub proprio vicino a te nella posizione di ascolto. In questo modo evitereste problemi di lunghezze d’onda e cancellazioni in quel punto, ma c’è da dire che non è sempre fattibile per semplici ragioni estetiche/pratiche e non è scritto da nessuna parte che sia la soluzione migliore a livello sonoro. Però, in casi complicati, prova: non si sa mai!
Nota a margine: capiamoci bene su una cosa, ascoltare le basse perfette in una stanza (anche in quelle trattate) é rarissimo, quasi una chimera, persino per gli stessi produttori di speaker. Quindi, non cercare l’impossibile, soprattutto in una normale stanza di casa.
Crossover: dove “sparisce” il sub
Il crossover è dove le frequenze più alte del sub si incrociano con quelle più basse dei diffusori. Con la musica, l’obiettivo tipico è far lavorare il sub abbastanza in basso da non diventare localizzabile, ma abbastanza in alto da coprire il punto in cui i diffusori principali iniziano a calare davvero.
Un metodo semplice:
- Parti con un taglio prudente (solitamente in musica ci si muove intorno agli 80Hz, ma dipende dai dati tecnici dei tuoi diffusori ovviamente, stai comunque una decina di Hz più alto di quanto dichiarano nelle specifiche).
- Alzalo finché il sub inizia a “farsi notare” come sorgente.
- Torna leggermente indietro e rifinisci con piccoli aggiustamenti di volume.
Se senti che il basso arriva dal sub o che si “gonfia” troppo in determinati momenti del brano, probabilmente il taglio è troppo alto. L’obiettivo è far sì che il basso sembri provenire naturalmente dai tuoi diffusori.
Volume: la regola più impopolare (ma utile)
Il volume del sub si regola per integrazione: anche in questo caso deve sembrare che l’impianto “sia nato così”. Se la prima cosa che noti è il subwoofer… complimenti per il subwoofer, meno per la resa con l’impianto.
Un test banale ma potente: a volume corretto, quando spegni il sub ti manca la base e la credibilità; quando lo accendi non deve cambiare il carattere, deve cambiare la completezza. Ricordati ancora una volta: non ti servono “più bassi boom boom”, ti servono bassi migliori, estensione, definizione, carattere, punch, profondità.
Fase: il controllo che molti ignorano
Senza entrare in spiegazioni tecniche, veniamo al punto: la fase (0°/180° o regolazione continua) serve a far sì che sub e diffusori si sommino bene nella zona di incrocio, invece di cancellarsi o gonfiarsi in modo strano.
In pratica, si prova e si sceglie l’impostazione che dà il basso più coerente e pieno nel punto d’ascolto, senza code e senza “buchi” (nulls).
Non entrare in paranoia, di solito lo zero è già un valore giusto, ma tu prova, senza passarci però le notti insonni. Se non riesci a percepire differenze (fuori fase il basso tende a suonare meno) il mio consiglio è di lasciare la fase a 0°.
Perché 2 subwoofer (e no, non è solo per venderti il secondo)
Due sub possono avere una motivazione molto concreta: rendere la risposta in basso più uniforme in ambiente, perché eccitano la stanza in modo diverso e possono ridurre l’effetto “qui tanto, lì niente” (mi perdonino i tecnici, ma questo è un articolo di base, non per chi vuole nozioni avanzate di fisica acustica, per quello ci sono i manuali di eminenti figure del settore).
C’è anche un vantaggio a livello di headroom: a parità di livello, due sub possono lavorare più rilassati rispetto a uno solo portato vicino al. Ma parliamoci chiaro, al limite non lo porterete mai, a meno che non siate dei malati del boomy sound o non abbiate acquistato il subwoofer di Barbie.
Detto questo: per gli usi più comuni in un impianto stereo domestico, un buon sub, scelto e regolato con criterio, spesso basta e avanza. Il secondo sub è un upgrade “di fino” da audiofili, non un prerequisito per essere felici.
Insomma…
Alla fine, la verità è meno romantica di quanto piacerebbe a certi integralisti del 2.0: la gamma bassa in casa è un campo minato, e ignorarlo non lo rende più “puro”. Potete trattare l’ambiente quanto volte, ma tantissimi diffusori sotto gli 80Hz (se non i 100 a volte) non hanno la stessa “forza” di quando lavorano sulle frequenze superiori. Arretrano, si siedono, non riescono a controllare e a controllarsi nella stanza.
Attenzione: non stiamo dicendo che suonano male! Figuriamoci, magari hanno un sound grandioso, ma anche in questi casi, forse non sapete ancora quanto possono suonare meglio, con un sub.
Un subwoofer ben integrato non è un trucco per impressionare gli amici né una licenza di far vibrare le pareti: è un modo per riportare la riproduzione su binari più corretti, dove il basso smette di fare il protagonista molesto e torna a fare… il basso. Anche nei dischi con solo voce e chitarra acustica.
Se l’idea del sub ti suona ancora come “complicazione”, pensa al contrario: spesso è il modo più pratico per semplificare la vita ai diffusori principali e alla stanza. Il che vuol dire: tanto, tanto godimento per te. Perché ascoltare la musica è anche una sensazione “fisica” e in questo un subwoofer fa una differenza sostanziale.
L’ultima regola è la più semplice (e la più difficile da accettare): il subwoofer migliore è quello che non si nota. Non perché non faccia nulla, ma perché quando tutto è a posto non senti “il sub”, senti la musica che finalmente poggia su fondamenta solide. E quando lo spegni, capisci perché riaccenderlo non è un vizio: è buon senso.










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