In ogni comunità esiste una categoria di persone convinte di avere sempre l’ultima parola. Del resto, delle problematiche di rispetto degli altri ne abbiamo già parlato in un recente articolo.
Nel mondo dell’alta fedeltà, questo ruolo è spesso incarnato da due gruppi che si credono opposti ma almeno su una cosa finiscono per assomigliarsi sorprendentemente: gli audiofili “di ferro” e gli appassionati Hi-Fi che passano la vita a criticare gli audiofili, autodefinendosi più lucidi, più tecnici, meno inclini a “farsi abbindolare”.
Entrambi condividono lo stesso punto cieco (anzi, dovremmo dire sordo, se ci passate la battuta): la difficoltà, a volte l’incapacità totale, di mettere in discussione il proprio orecchio, le proprie capacità di ascolto e, quindi, di critica.
Che si tratti di una sala d’ascolto domestica, di una fiera affollata, di un negozio specializzato o del salotto di un amico, il giudizio arriva rapido, verticale, quasi dogmatico. Bastano pochi secondi e quello che ascoltano diventa un verdetto: giusto o sbagliato, naturale o artificiale, “come dovrebbe suonare” o “completamente fuori strada”.
Il problema è che il più delle volte non giudicano ciò che ascoltano, ma ciò che si aspettano di ascoltare.
L’abitudine sonora elevata a verità
Il primo ostacolo è banale, ma potentissimo: l’abitudine. Ognuno di noi vive immerso in un certo tipo di suono, frutto dell’ambiente domestico, dei propri apparecchi, delle regolazioni preferite, della disposizione dell’impianto e persino dei mobili. Questo “suono di casa” diventa la misura di tutto.
Quando ci si trova davanti a un’impostazione diversa – diffusori più o meno brillanti, un amplificatore dal carattere opposto al nostro, una sala molto più assorbente o più riflettente – la prima reazione è di rifiuto.
Non perché il nuovo suono sia davvero peggiore, ma perché non è quello che conosciamo. In altri settori questa si chiama “resistenza al cambiamento”, nell’hi-fi prende la forma del giudizio tranchant.
L’orecchio come giudice infallibile… degli altri
Altro grande classico: la convinzione di possedere un orecchio superiore alla media. Gli audiofili tradizionali ci si aggrappano come un distintivo di legittimità; gli appassionati “anti-audiofili”, che disprezzano i primi, sostengono di avere un orecchio più neutrale, meno suggestionabile.
In realtà, entrambe le categorie finiscono per commettere lo stesso errore (nota del redattore: ovviamente non tutti, parliamo sempre di una percentuale di persone, non facciamo di tutta l’erba un fascio): trattare il proprio orecchio come il tribunale supremo del suono, infallibile nel giudicare gli altri, intoccabile quando si tratta di mettere in discussione sé stessi.
La realtà è più semplice e meno romantica: la percezione uditiva è un meccanismo fragile, condizionato da stanchezza, umore, stato fisico, rumore ambientale e svariati altri fattori. E, soprattutto, da preconcetti.
Stanchezza, rumore e contesto
La maggior parte delle impressioni negative maturate durante le fiere hi-fi o negli showroom non derivano dagli apparecchi, ma dalle condizioni in cui si ascolta. Una fiera è spesso un caos acustico: brusio continuo (la maleducazione di certe persone è davvero deprecabile), sale non trattate, ascolti concatenati uno dietro l’altro in cui l’orecchio si “ubriaca” di impostazioni opposte nell’arco di pochi minuti/ore.
Eppure, sia l’audiofilo sia il suo critico preferito sono convinti di poter esprimere giudizi affidabili anche in mezzo a un rumore di fondo degno di un concorso di trapani industriali. La fiducia in sé è ammirevole; l’oggettività, molto meno.
La memoria uditiva: il castello di carta
Uno dei paradossi più sorprendenti dell’audiofilia è che molti giudizi assoluti si fondano su una memoria uditiva che dura pochissimo. Eppure diversi appassionati parlano come se ricordassero perfettamente il timbro di un ampli ascoltato tre mesi prima, o la “morbidezza del medio” di un diffusore sentito un pomeriggio in negozio.
Il risultato? Confronti impossibili, raffronti basati su impressioni vaghe e una certezza granitica basata su qualcosa che, semplicemente, non possiamo ricordare con precisione.
Questo poi, è anche il problema di tanta “nostalgia vintage” e di chi è convinto che oggi ci siano apparecchi peggiori di quelli dell’epoca. No, ci sono diverse vecchie glorie che ancora resistono e con ottimi motivi, ma per il resto ci sentiamo di affiancarci a una delle leggi di Barney Stinson: new is better.
Come “dovrebbe suonare” uno strumento
Un altro pilastro del dogma audiofilo è l’idea che strumenti e voci abbiano un suono “giusto”, uno standard ideale e immutabile. Peccato che questo standard, nella maggior parte dei casi, coincida perfettamente con il loro gusto personale.
La realtà è ben diversa: uno strumento cambia carattere in base all’ambiente, al tipo di microfono, alla distanza di ripresa, alla temperatura, alla sala, alla fatica del musicista, persino alle condizioni delle corde o altre parti.
Lo stesso violoncello può sembrare vellutato in una sala da camera e pungente in un teatro asciutto. Un sassofono subisce dei mutamenti sonori se al caldo di un teatro o al freddo di un concerto in piazza a capodanno.
L’importante è che suoni realistico, ma questa identificazione di “reale” siamo sicuri che corrisponda a un paramentro oggettivo e non soggettivo nel nostro orecchio (cervello)?
Chi pretende che ogni strumento suoni come “dovrebbe” forse talvolta non sta difendendo la realtà: sta difendendo il proprio ideale personale.
La sfiducia verso i giornalisti: “tutti venduti”
Esiste poi una narrativa ormai classica: “i giornalisti sono tutti pagati dalle aziende”. Un’affermazione che ha lo stesso andazzo del “tutti i politici sono ladri”: sicuramente queste casistiche esistono, purtroppo, ma fare di tutta l’erba un fascio è una semplice comfort zone.
Non si può negare che in passato (e anche oggi) siano esistiti casi di conflitti d’interesse, recensioni addomesticate, o giornalismo più promozionale che critico. Ma generalizzare equivale a semplificare. Dire che tutti i giornalisti sono venduti è comodo, ma intellettualmente disonesto. È un modo per delegittimare ogni opinione diversa dalla propria senza entrare nel merito. È una scorciatoia per evitare il confronto.
Spesso, chi abbraccia questa visione si convince di essere “più lucido” solo perché diffida di tutto. Ma la diffidenza sistematica non è sinonimo di obiettività: è solo l’altro volto del pregiudizio.
Paradossalmente, questo scetticismo assoluto verso chi scrive di hi-fi si accompagna a una fiducia cieca verso sé stessi o verso pochi guru di riferimento, scelti non in base alla qualità delle argomentazioni, ma alla loro affinità ideologica. Così, mentre si accusa il giornalismo di essere corrotto, si finisce per costruirsi un piccolo culto personale dell’opinione, chiuso e autoreferenziale.
Un buon giornalismo tecnico, invece, serve proprio a contrastare i dogmi: confronta, misura, spiega, mette in discussione. È imperfetto, come ogni attività umana, ma è anche una delle poche strade disponibili per portare ordine nel caos delle impressioni soggettive. Criticarlo quando serve è giusto. Screditarlo in blocco è solo un altro modo per non ascoltare davvero.
Avere comprato tanto non significa avere competenze professionali
C’è poi un altro equivoco ricorrente: l’idea che aver passato venti o trent’anni a comprare apparecchi renda automaticamente pari ai giornalisti che li provano ogni settimana o ai progettisti che li costruiscono.
La differenza è sostanziale. Un giornalista testa centinaia di prodotti all’anno, spesso in ambienti controllati e in condizioni replicabili. Un progettista conosce la fisica, la circuitazione, le misure, la progettazione acustica, e capisce perché un ampli si comporti in un certo modo. Avere collezionato molti apparecchi non significa averli davvero compresi. Significa averli usati, niente di più.
L’esperienza d’uso è preziosa, questo è un fatto incontrovertibile e non lo mettiamo in discussione. Un consiglio da chi ne ha “passate tante” ben venga. Ma non è automaticamente esperienza da definire “professionale“.
Un altro meccanismo psicologico che colpisce chi vive da tempo l’Hi-Fi è la tendenza a considerare il giudizio negativo come più autorevole del giudizio positivo.
Nel loro immaginario, dire che qualcosa “non va”, “non convince”, “suona male”, li fa sentire automaticamente più esperti, più severi, più “professionali”. È un riflesso culturale tipico di molti ambienti specialistici: chi critica sembra competente, chi apprezza sembra ingenuo.
Il paradosso, però, è evidente: nell’ascolto musicale questo atteggiamento non ha alcuna base reale. Apprezzare un impianto o un componente non significa essere inesperti o suggestionabili; significa semplicemente riconoscere ciò che funziona.
Al contrario, cercare a tutti i costi un difetto rischia di trasformare l’ascolto in un’esercitazione sterile in cui l’obiettivo non è capire, ma confermare la propria aura da “professionista del suono”. E questo, alla lunga, porta solo a perdere il senso stesso dell’hi-fi: godersi la musica.
Il culto delle specifiche: giudicare senza ascoltare
Accanto all’audiofilo che crede nel proprio orecchio come fosse un oracolo, esiste un’altra figura altrettanto assolutista: quella di chi non ascolta affatto. Non perché non ne abbia l’opportunità, ma perché ritiene di poter giudicare un componente audio leggendo solo la scheda tecnica, come se ogni cifra pubblicata fosse un verdetto scolpito nella pietra.
Per questa categoria di appassionati, il destino di un prodotto è già deciso prima ancora di accenderlo: bastano un paio di grafici, qualche valore di THD, la risposta in frequenza ecc… Il resto è irrilevante. Lui “sa già tutto”.
Il problema è che questi numeri, pur importanti, non raccontano tutto. E soprattutto non possono sostituire l’ascolto diretto, contestualizzato, ragionato. Si tratta di una competenza a metà: quella che conosce i dati, ma non li interpreta nel loro contesto reale.
Molti di questi “tecnici da tastiera” fanno affidamento su una memoria uditiva illusoria, convinti di ricordare esattamente come “suonava” un altro prodotto con caratteristiche simili, ascoltato magari mesi prima in condizioni completamente diverse. Anzi, sanno “come suonano quei numeri, quelle misure”.
In questo modo, si costruisce un giudizio preventivo che non lascia spazio alla verifica concreta, all’ascolto critico, al confronto reale tra componenti. L’oggettività si trasforma in determinismo tecnico, dove tutto è già scritto e nulla può sorprendere.
È un approccio che scambia la misura per la verità, dimenticando che anche la migliore misurazione è solo un tassello dell’esperienza acustica.
Ad oggi anche un oggettino di provenienza asiatica da poche decine di euro può dichiarare una distorsione iper-ultra-bassa. Chiediamoci il perché e, quindi, quanto certi numeri, non avvalorati dall’esperienza diretta, contino davvero.
Mettersi in discussione non è debolezza, è competenza
Nel mondo dell’alta fedeltà, come in molti altri ambiti tecnici o passionali, ammettere di poter sbagliare viene spesso visto come un segno di incertezza, quasi una rinuncia all’autorevolezza.
In realtà è vero il contrario: chi si mette in discussione dimostra di avere gli strumenti per analizzare, valutare, confrontare e crescere. Significa riconoscere che l’ascolto, in ambito amateur, non è mai un atto puramente oggettivo, ma il risultato complesso di fattori tecnici, percettivi, ambientali, culturali ed emotivi.
Il vero ascoltatore esperto non è colui che lancia giudizi assoluti dopo pochi secondi, ma chi si concede il tempo di capire il contesto, di adattarsi, di sospendere il pregiudizio. Mettersi in discussione vuol dire accettare che il proprio orecchio, per quanto allenato, non è infallibile; che ciò che si percepisce può variare da un giorno all’altro; che un sistema può suonare diverso – e comunque valido – anche se non rientra nelle proprie aspettative abituali.
Riconoscere i propri limiti sensoriali e cognitivi non riduce la competenza, la rafforza. Apre alla possibilità di confrontarsi davvero con gli altri, di scoprire soluzioni alternative, di ascoltare con maggiore attenzione e meno fretta.
In definitiva, mettersi in discussione è ciò che distingue la vera competenza dalla semplice opinione. È ciò che trasforma l’audiofilia da una gara di ego a un’esperienza di esplorazione continua.










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