Negli ultimi tempi, le piattaforme di streaming sono diventate il terreno di una trasformazione tanto rapida quanto difficile da controllare. L’intelligenza artificiale generativa, inizialmente vista da qualcuno (inguaribile ottimista) come uno strumento creativo di supporto agli artisti, sta invece alimentando una vera e propria invasione di brani musicali interamente prodotti da algoritmi, caricati a ritmo vertiginoso su servizi come Spotify, Deezer e altre piattaforme di streaming musicale.
Il fenomeno non si limita alla semplice sperimentazione: sempre più spesso, le tracce vengono pubblicate sotto nomi di artisti e band che non esistono, con biografie, copertine e stili musicali apparentemente credibili, ma in realtà frutto di un sistema automatizzato.
In molti casi si tratta di identità artificiali, generate a loro volta da modelli linguistici e grafici, concepite per popolare cataloghi digitali e attirare ascolti, anche minimi, ma su scala di milioni di riproduzioni. Brani che finiscono anche infiliati di soppiatto in playlist, che generano un gran numero di ascolti, spesso senza che l’ascoltatore sospetti nulla.
Numeri fuori controllo
Solo nel 2024 Spotify avrebbe rimosso circa 75 milioni di brani riconducibili a contenuti “spam”, molti dei quali prodotti o manipolati tramite AI (fonte: Music Business Worldwide). Una cifra enorme se si considera che l’intero catalogo della piattaforma conta oltre 100 milioni di tracce.
Il problema non è soltanto quantitativo. Secondo Deezer, già nella prima metà dell’anno il 18% dei caricamenti giornalieri era costituito da musica generata dall’intelligenza artificiale, con una crescita che in autunno avrebbe superato il 28% (fonte: Financial Times). In pratica, quasi un brano su tre immesso nel circuito dello streaming globale non ha più un autore umano dietro di sé.
Dietro a questo boom si nasconde un’economia sotterranea che sfrutta le regole stesse dello streaming. La soglia minima di 30 secondi per l’attribuzione delle royalty e i micro-pagamenti per singolo ascolto rendono conveniente la produzione di migliaia di clip brevi, spesso prive di valore artistico, ma capaci di generare un flusso costante di ricavi se riprodotte a sufficienza. Come lo ha definito The Guardian, è un sistema di “streaming farming” automatizzato, dove l’obiettivo non è creare musica, ma monetizzare un algoritmo.
Artisti fittizi e deepfake vocali
La parte più inquietante è però quella legata ai deepfake musicali. Negli ultimi mesi si sono moltiplicati i casi di brani che imitano le voci di cantanti celebri, da Drake a Billie Eilish, prodotti senza alcuna autorizzazione. Alcuni di questi brani sono stati inizialmente pubblicati come se fossero inediti ufficiali, generando milioni di ascolti prima di essere rimossi.
Il confine del furto d’identità è sempre più vicino. Spotify ha reagito introducendo nuove regole con il divieto di caricare contenuti che riproducano in modo realistico la voce di artisti senza il loro consenso. L’azienda ha inoltre annunciato la futura implementazione del protocollo DDEX per la trasparenza nei credits, che obbligherà i distributori digitali a dichiarare se un brano è stato realizzato con l’aiuto di intelligenze artificiali.
Le piattaforme corrono ai ripari
Nonostante le contromisure, il flusso di caricamenti automatizzati continua a crescere. In molti casi, le stesse distribuzioni digitali low-cost offrono servizi che permettono di pubblicare in pochi minuti migliaia di tracce, generando un catalogo artificiale impossibile da distinguere a colpo d’occhio da quello reale.
Alcune di queste società sarebbero anche coinvolte in pratiche di frode sugli stream, con reti di bot che simulano ascolti per gonfiare i numeri e intascare i proventi.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (WIPO), si tratta di una nuova forma di “micro-sfruttamento digitale”, dove milioni di file generano piccole quantità di denaro che, sommate, costruiscono profitti significativi per pochi operatori. È un’economia della quantità, che non premia certo la qualità.
Questioni legali e responsabilità
Sul piano giuridico, il terreno è ancora più scivoloso. L’estate 2025 ha visto l’esplosione del caso RIAA contro Suno, una delle startup più popolari per la generazione musicale con AI. L’associazione delle major discografiche americane accusa la società di aver utilizzato milioni di brani protetti da copyright come materiale di addestramento, senza autorizzazione e con finalità commerciali.
Il procedimento, ancora in corso, potrebbe diventare un precedente cruciale per tutto il settore: se la RIAA dovesse vincere, le aziende che sviluppano generatori musicali sarebbero obbligate a dichiarare la provenienza dei dati di training e, potenzialmente, a risarcire i titolari dei diritti originali.
Un problema culturale, non solo tecnologico
Al di là delle implicazioni economiche e legali, la questione tocca la natura stessa della musica contemporanea. Se un numero crescente di canzoni viene composto, cantato e distribuito da macchine, quali spazi restano per la creatività umana? E come potrà il pubblico distinguere un brano autentico da uno artificiale?
Non ultima delle domande, quella che fa più paura: a una parte del pubblico, importerà ancora se la musica che ascolta è prodotta da esseri umani? Si tenderà a preferire l’AI semplicemente perché ci tiene sempre nella nostra comfort zone di gusti musicali, facendoci ascoltare sempre la stessa frittata rigirata, ma affine alle nostre preferenze?
Si, capite bene: sarebbe l’assoluta e definitiva morte della cultura musicale, ridotta a una sorta di placebo (cosa che in parte, a dire il vero, in diversi frangenti già accade).
Possiamo dare la colpa alla macchina, ma alla fine, come è stato sin dai tempi dei download massivi e illegali tramite Napster o eMule, saremo noi ad avere una parte di responsabilità e di colpa.
La prospettiva, nel lungo periodo, è quella di un ecosistema dominato da musica “senza autore” (di sicuro più economica e veloce da produrre anche per la case discografiche, NdR) in cui il valore artistico rischia di dissolversi in una massa indistinta di file generati su scala industriale. Senza contare tutto quello che è il mondo del lavoro intorno all produzione musicale, fatta non solo di artisti, ma di milioni di professionisti in tutto il mondo.
Per contrastare questa deriva, alcuni operatori propongono la creazione di etichette di autenticità digitale, simili a certificazioni blockchain, che garantiscano l’origine umana di una registrazione. Ma finché la produzione automatizzata continuerà a crescere ai ritmi attuali, le piattaforme rischiano di trovarsi sommerse da un mare di contenuti che nessuno, in realtà, ha mai suonato.
Alla fine come in altri campi il dubbio è lo stesso: l’AI è arrivata e sta mostrando come cambierà le nostre vite nei prossimi anni. Ma al nostro entusiasmo per i risultati immediati che ci offre (e non parliamo certo degli usi goliardici che vediamo sui social, spesso ben oltre i limiti dell’idiozia, NdR), deve corrispondere la consapevolezza che ci ha colti disarmati e non è facile stare alla sua velocità.
Uno tsunami tecnologico che provoca evoluzione e rivoluzione, ma rischia anche di lasciare molte macerie dietro di sé.
Per fortuna l’AI non può salire su un palco… o non ancora?










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