;
HomeMusica e CulturaAscoltare Musica - ApprofondimentiLa musica live tra numeri e realtà: tra crescita economica e crisi di identità

La musica live tra numeri e realtà: tra crescita economica e crisi di identità

Nel 2025 la musica live italiana vive tra boom e fragilità: dati record, tour in crisi e club che chiudono.

Quando Asso Concerti ha presentato i dati nel convegno “La canzone popolare live, dati e prospettive”, il racconto è apparso chiaro: la musica popolare dal vivo non è soltanto spettacolo, ma una forza economica e culturale centrale del Paese.

Secondo i numeri diffusi, il 2024 ha registrato un indotto complessivo di 4,5 miliardi di euro e oltre 24 milioni di spettatori nei soli ambiti pop, rock e affini. Cifre che, per la prima volta, collocano questo settore tra le principali industrie culturali italiane.

I numeri di Asso Concerti: un’economia che canta

Nel dettaglio, la musica popolare rappresenta quasi il 60% del mercato del live nazionale e il 40% degli incassi totali della musica dal vivo. In termini assoluti, parliamo di 39.000 spettacoli e circa 900 milioni di euro di spesa al botteghino.
A questo si aggiunge un tessuto produttivo fatto di 17.765 imprese, 74.500 addetti e 805 milioni di euro di fatturato solo per le aziende associate. Dati che descrivono un sistema complesso, articolato e in piena attività.

Ma nel convegno non si è parlato solo di economia. Il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi ha sottolineato il valore comunitario del concerto dal vivo: «La musica è espressione sociale, il live è espressione di una grande comunità».
E ancora, ha parlato della necessità di difendere quella che ha definito “la cultura con la c minuscola”, non per ridimensionarla, ma per riconoscere la sua capacità di creare identità collettiva e partecipazione.

Un’arte viva ma senza sostegni

Il presidente Bruno Sconocchia ha ricordato come la musica popolare, pur rappresentando il cuore pulsante del sistema, non riceva alcun sostegno pubblico. «Quando dico alcun sostegno, significa zero, non poco».
Un paradosso, se si considera che i generi più popolari sono quelli che muovono la maggior parte del pubblico, sostengono l’indotto turistico e generano occupazione diretta e indiretta.

Sconocchia ha poi posto una riflessione più profonda: la necessità di superare la distinzione tra “musica colta” e “musica leggera”, ricordando come «tra Puccini e Bob Dylan ci sono solo cinquant’anni di differenza, ma entrambi hanno raccontato il loro tempo».
Nel suo discorso, la canzone popolare diventa quindi una forma d’arte viva e contemporanea, non un sottogenere, e un pilastro della cultura nazionale che dovrebbe trovare spazio nel nuovo Codice dello Spettacolo in discussione al Parlamento.

L’impatto economico e territoriale

Secondo gli studi illustrati da Asso Concerti, la ripresa post-pandemica è stata più rapida rispetto ad altri comparti. La musica popolare contemporanea ha rappresentato nel 2024 il 59% di tutti i concerti italiani, con un modello diffuso basato su eventi di piccola e media scala.
Solo lo 0,7% degli eventi ha superato i 10.000 spettatori, a conferma che il tessuto del live italiano è composto perlopiù da palchi di prossimità.
Le città più attive – Roma, Milano, Bologna, Napoli, Verona, Lucca, Ravenna – dimostrano che il concerto può essere anche politica culturale e coesione territoriale, unendo turismo, economia e comunità.

La fotografia del 2024, insomma, è quella di un Paese che canta e produce. Ma cosa accade se a quella foto aggiungiamo la cronaca del 2025?

2025: una crisi silenziosa?

I numeri dell’anno precedente non raccontano le nuove ombre che si sono allungate sul settore. Nel corso del 2025, numerose inchieste – da Radio Capital a All Music Italia, da L’Espresso a Help Music – hanno segnalato un cambio di clima: meno euforia, più incertezze.
Si parla di tour annullati o ridimensionati, di flop negli stadi, di vendite inferiori alle attese anche per nomi di primo piano della scena italiana.

Le cause sono molteplici. L’aumento dei costi di produzione, la saturazione dell’offerta e un pubblico sempre più selettivo hanno portato molti promoter a fare i conti con ricavi inferiori e margini in caduta.
Spesso i “sold out” sbandierati nascondono settori chiusi, biglietti omaggio o sconti estremi. Come ha dichiarato il promoter Claudio Trotta (Barley Arts), «Dietro tanti sold-out si nascondono biglietti regalati e location troppo grandi. Stiamo spremendo gli spettatori più fedeli».

La cosiddetta “crisi silenziosa del live” non si vede dai numeri ufficiali, ma si percepisce nella realtà dei tour. Artisti come Rkomi, Bresh o Tony Effe hanno dovuto ridimensionare i piani per gli stadi dopo prevendite deludenti, mentre molte produzioni minori sono state rinviate o cancellate.
In parallelo, l’inflazione e il costo della vita rendono il concerto un lusso: biglietti, trasporti, alloggi e consumi annessi pesano sempre di più.

Il risultato è un sistema che continua a generare valore economico, ma lo fa con una tensione crescente tra grandi numeri e fragilità strutturali.

Foto di Sabrina Campagna – CC BY-NC-ND 2.0

I live club: la base dimenticata del sistema

Se la crisi dei grandi tour è visibile, quella dei piccoli live club è silenziosa ma devastante.
Sono i luoghi da 50, 100 o 150 persone, dove nascono le band, si formano i musicisti, si sperimentano i linguaggi e si costruiscono le comunità artistiche locali. Sono, in molti casi, il primo gradino della filiera che poi alimenta la scena nazionale.

Negli ultimi anni, però, molti di questi spazi hanno chiuso i battenti.
Le cause: tassazioni, pochi introiti, burocrazia complessa, pressioni delle autorità locali, denunce per rumore e intolleranza da parte dei residenti, anche per motivi spesso futili (nella grandi città oramai si pensa più al benessere degli ospiti degli Airbnb che ad altro…).
In tante città italiane, aprire o mantenere un club oggi significa rischiare continuamente multe, ricorsi e spese legali, con il risultato che molti imprenditori preferiscono riconvertire i locali in attività più tranquille: bar con TV sportive, lounge, ristorazione mordi e fuggi.

Eppure, i live club non sono solo “posti dove si suona”. Sono spazi civici, luoghi dove la musica diventa aggregazione, educazione e prevenzione sociale.
Per molti giovani rappresentano l’alternativa reale alla solitudine domestica (se non peggio…) o alla formazione chiusa nelle aule delle scuole di musica. È lì che si impara a suonare con gli altri, a gestire il palco, a capire il pubblico. A prendere i primi applausi, ma anche i primi fischi o silenzi imbarazzanti, che sono anch’essi altamente formativi…

La scomparsa dei club produce una desertificazione culturale che non riguarda solo la musica, ma la qualità della vita urbana. Dove non ci sono spazi per la cultura giovanile, cresce la disaffezione, cala la partecipazione e si spegne l’energia che tiene viva la città.

Un futuro da riscrivere

Il quadro che emerge è quello di una grande contraddizione italiana. Da un lato, un settore che genera miliardi, attrae milioni di persone e viene celebrato come simbolo di vitalità; dall’altro, un ecosistema fragile, esposto a squilibri economici e privato dei suoi luoghi di formazione e crescita.

La sfida politica e culturale per i prossimi anni sarà riconoscere la musica popolare dal vivo come bene comune, capace di unire economia e cittadinanza, ma anche di creare opportunità per chi vuole fare musica e non solo consumarla.
Serve un intervento normativo e infrastrutturale che consideri i club, le medie sale, le piazze e i festival come parte integrante della cultura italiana, non come disturbo urbano o problema gestionale.

Perché la canzone popolare non è solo un genere musicale: è un modo di stare insieme. E se smette di suonare nei piccoli luoghi, presto non avrà più voce nemmeno nei grandi.



MUSICOFF NETWORK

Musicoff Discord Community Musicoff Channel on YouTube Musicoff Channel on Facebook Musicoff Channel on Instagram Musicoff Channel on Twitter


🎉 BLACK FRIDAY: -30% SUI CORSI