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Musicisti in fuga

Musicisti in fuga, cronache prima della crisi

Nel momento in cui scriviamo, tutti sognano di scappare... di casa, ma cercare fortuna all'estero è un costume antico per gli italiani. Ne vale sempre la pena?

È strano scrivere di fughe oltre confine proprio nel momento in cui questo è rigorosamente proibito e la soluzione più sicura risulta proprio quella di rimanere “chiusi in casa”. Forse era destino che per pubblicare questo articolo – iniziato diversi mesi fa – si dovesse aspettare un momento così anomalo, soprattutto per noi occidentali poco abituati alle chiusure e a inquietudini collettive delle proporzioni odierne.

Magari, però, fa proprio bene pensare in avanti, ragionare su progetti da mettere in atto una volta liberi di nuovo di muoversi, pur nella difficoltà di immaginare “quando” e – soprattutto – in che condizioni, visto che le conseguenze di questa crisi sono difficilmente prevedibili e quantificabili anche a livello economico.

Chissà che non ne esca anche qualcosa di buono… qualche testa potrebbe iniziare improvvisamente a pensare correttamente o addirittura scegliere di fare la cosa giusta.
Shit happens, è vero, ma i miracoli a volte inaspettatamente arrivano.
Magari anche per noi musicisti.

Il disastro con il quale in questi giorni si sta confrontando chi vive di musica è davanti agli occhi di tutti. Spettacoli annullati fino a data da destinarsi, una ripresa che si preannuncia molto difficile e lenta in ogni ambito, figurarsi in quello artistico.

Musicisti in fuga

Questo ci porta inevitabilmente a un confronto con quanto succede fuori dei nostri confini, dove è maggiore la tutela di quella che – almeno in molti paesi europei – viene considerata seriamente una professione.
Si parla da tempo dei cosiddetti “cervelli in fuga”, di menti brillanti costrette a lasciare il nostro paese per trovare valorizzazione altrove. Di esempi ce ne sono parecchi e molto ci sarebbe da dire, ad esempio, sullo stato sofferente della ricerca scientifica in Italia.

Tutti abbiamo letto sui notiziari le storie di chi ha trovato un lavoro prestigioso in USA o in qualche altro stato Europeo grazie al proprio curriculum e a una preparazione che qui sembrava garantire solo una lunga e nebulosa attesa.
D’altronde, chi invece ha la fortuna/sfortuna di scegliere una carriera artistica ha davanti a sé problematiche ancora più serie, vista la scarsa considerazione attribuita generalmente all’arte in generale come professione. Cito: “Di cultura non si mangia“.

È abbastanza frequente tra i musicisti italiani, dunque, la tentazione di lasciare amici e parenti per tentare la sorte in un altro paese in cui sia più facile ottenere un inquadramento professionale o, quantomeno, trovare più occasioni lavorative.
La domanda che però nasce spontanea e che diventa sempre più cruciale di giorno in giorno è: ne vale veramente la pena? È veramente così facile?

Sottolineando ancora che tutto andrà aggiornato nei prossimi mesi secondo quanto produrrà, nel bene e nel male, il nostro caro virus, abbiamo raccolto le risposte  di chi questa “fuga” l’ha messa in atto in tempi recenti.

Uno dei classici per i musicisti italiani negli ultimi cinquant’anni è stata senz’altro l’Inghilterra Londra in particolare, ma oggi il Regno Unito ha scelto di uscire dalla comunità degli stati europei suscitando critiche e reazioni a largo raggio.
Il miraggio di quella che un tempo era la swinging London impallidisce a vista d’occhio sotto il peso delle nuove regole che rendono più difficile anche per i professionisti portare la loro musica nel circuito britannico.

Luca Somigli

C’è però un gruppo di nostri connazionali che la manica l’ha attraversata prima di tutto questo.
Fra questi Luca Somigli, che fino a poco tempo fa era solo un ragazzo romano poco più che ventenne, molto dotato musicalmente, uno di quelli che assimilano velocemente tutto quello che possono dall’ambiente circostante, salvo scontrarsi poi con previsioni lavorative poco rosee.

La decisione di provare la strada londinese passa per l’iscrizione a una delle maggiori scuole locali, il London College of Music dove si diploma in chitarra e poi anche in pianoforte, mentre contemporaneamente si avventura nell’ambiente dei club locali a contatto con musicisti di ogni tipo e livello.

Di opportunità – dice – qui ce ne sono tantissime sia per la musica che per altre cose per cui è più semplice integrarsi a livello professionale ed economico. Se sei un musicista o hai una band è molto più facile trovare situazioni lavorative, magari meglio pagate, a differenza di quanto succede a Roma anche per musicisti di alto livello.

Confrontandosi sulle cifre, si scopre che un club londinese non paga i musicisti più di un locale italiano, ma la differenza in positivo si gioca su altri fattori…

Luca Somigli

La differenza sostanziale è che qui capita tutto molto in fretta, ci sono più opportunità che a Roma. Fondamentalmente la gente è più propensa a fare business perché – lo sappiamo – da noi è sempre un “mi fido e non mi fido”, tanti dubbi e tentennamenti, sempre la solita storia. Qui c’è più fiducia e l’economia – anche della musica – gira più velocemente.
Conosco un’artista italiana che vive e lavora qui e ha partecipato a una competizione per ottenere un finanziamento da un’azienda privata che si occupa di musicisti. Ha vinto e le hanno finanziato tutto il progetto, lo studio, il fonico, varia attrezzatura…

Fino ad oggi Luca a Londra si è guadagnato da vivere suonando e insegnando, ma ora deve fare i conti con una situazione in veloce e continua evoluzione a causa dell’emergenza sanitaria. Le scelte da fare potrebbero essere drastiche.

Marco Zenini si diploma in contrabbasso e a 25 anni va ad Amsterdam per approfondire lo studio jazzistico del suo strumento. Nella città olandese finisce per rimanere più di sei anni, completando i suoi studi e stringendo rapporti importanti con musicisti locali e internazionali, fino al momento in cui la scelta si prospetta troppo radicale e decide di tornare a confrontarsi con le problematiche dell’ambiente italiano.

La prima cosa che sottolinea è quanto sia importante sfatare lo stereotipo secondo il quale tutto sarebbe migliore appena usciti dall’Italia e capire che ci sono sempre dei pro e dei contro.
Innanzitutto, i tagli alla cultura non sono una nostra esclusiva, avvengono a vari livelli anche negli altri paesi, nei quali però i vantaggi possono essere relativi anche alle semplici dimensioni del territorio.

Marco Zenini

L’Olanda è piccola, si può paragonare al Nord-Italia e quindi ci si muove nelle varie città fra Amsterdam, Rotterdam, ecc… tenendo conto che i posti piccoli – pub, bar – sono come quelli italiani quanto a livello di guadagno per i musicisti.
La differenza più netta, nella mia esperienza, è che avevo un numero più alto di cachet di livello medio, mentre questo era ancora maggiore nei festival.

L’ambiente musicale in cui si muove Marco, come contrabbassista e bassista, è da sempre quello del jazz, ma in generale la sua opinione è molto chiara e radicale:

L’Olanda offre molte potenzialità anche per la vicinanza di altri stati come Belgio, Francia, Germania, ma io cercherei comunque di abbassare le aspettative: anche lì è molto difficile, ci vuole molto tempo, la scena è molto competitiva perché ci sono tanti musicisti per un paese molto piccolo.
L’idea di andare in Olanda e svoltare per me non esiste ed è lo stesso per qualsiasi altro paese che ho visitato in Europa.

Marco Zenini

Ci sono però diverse cose che funzionano meglio… 

Dal secondo anno che vivevo lì, cioè dal 2011 fino al 2016 quando me ne sono andato, ho avuto la partita IVA e una posizione fiscale legale per cui potevo portare in detrazione le mie spese, scalare dalle tasse l’acquisto di uno strumento. In tutto questo – rimanendo praticamente sempre sotto il livello del salario minimo – io non pagavo tasse.
È uno stato di protezione altissimo per i musicisti, una differenza abissale perché sei riconosciuto, hai una posizione fiscale molto chiara, non ti devi sentire un fuorilegge e puoi vivere legalmente, cosa per me fondamentale. In questo non c’è paragone.

La decisione di tornare in Italia arriva nel momento in cui l’alternativa è una scelta difficile, quella di calarsi radicalmente nelle vesti di un olandese con tutto quel che ne consegue a livello culturale e sociale.
In un paese in cui fino a poco tempo fa anche lo status di studente era molto protetto con varie facilitazioni, gli sbarramenti rispetto a finanziamenti più seri sono molto alti. 

Di sicuro devi avere un profilo molto nazionalizzato… il discorso della lingua, ad esempio, in Olanda non è da poco, sono molto pochi i musicisti che imparano l’olandese, almeno ad Amsterdam. Se vuoi vivere lì, ti devi mettere in testa di imparare la lingua il prima possibile, io lo dico a tutti ma poi nessuno lo fa perché poi vai avanti parlando inglese.

Ora Marco è a Roma ed esercita la sua professione di musicista insegnando e suonando in varie formazioni, mantenendo attivo per quanto possibile quanto avviato a suo tempo in Olanda.

Lorenzo Feliciati

È una storia diversa dalle altre quella di Lorenzo Feliciati, che in Francia si è trasferito per esigenze principalmente familiari. Ma la sua attività di bassista, da tempo passata a livello internazionale, non poteva che guadagnarci.
Per un musicista dalla carriera trentennale che ha nel suo curriculum collaborazioni dirette con musicisti del giro dei King Crimson, Yellow Jackets, Porcupine Tree, Frank Zappa, trovare casa nel centro dell’Europa era un ovvio vantaggio.

All’inizio Parigi si prospetta molto funzionale per i suoi frequenti viaggi, ma un ulteriore recente spostamento a Bruxelles – dettato anche stavolta dalla logistica familiare – migliora ulteriormente le cose  in base a una serie di motivazioni.
A Bruxelles, in generale si sta benissimo a parte la mancanza del sole, racconta. La vita è molto meno costosa di Parigi ed è molto ben collegata con tutto. Non si usa più la macchina in una città che si qualifica come europea in ogni modo. 

La qualità quotidiana della vita è altissima rispetto a Roma, anche se la nostalgia rimane… 
Quando pensi di trasferirti nel nord Europa devi mettere in conto la mancanza di luce per lunghi periodi dell’anno e non è un fattore trascurabile. Se vieni dall’Italia dopo un po’ ne risenti.

Lorenzo Feliciati

Parigi non la rimpiange molto. Quel che ha imparato è che i francesi fanno suonare quasi solo i francesi, in Belgio c’è più curiosità e comunque da Bruxelles in due ore si va a suonare anche in Olanda dove c’è molto movimento e la sera si può tornare a casa.
L’ambiente della città belga è ricco di locali in cui è facile trovare della musica originale anche per ballare.

Per la Francia la mia esperienza vale per quel che vale, ma ad esempio l’equivalente del nostro ufficio di collocamento valuta fra le tue cose solo quelle fatte in Francia. Appena arrivato a Parigi mi hanno chiesto quali erano i miei introiti per poi dirmi che quello che avevo guadagnato in Norvegia o altri paesi non aveva valore per loro. Anche se poi le tasse le avrei pagate in Francia! 

Per un musicista italiano è decisamente insolito trovarsi a confronto con un sistema che protegge in maniera così efficiente i propri connazionali…

Per questo i musicisti locali lavorano il più possibile in Francia. Il sistema di welfare ti ridà una buona parte delle tasse che paghi ogni anno quando non sei attivo, un tot al mese, ma devi accumulare un certo numero di ore di lavoro (nelle quali sono considerate anche le prove).
Il rischio – è una mia opinione – potrebbe essere quello di portare alla crescita di una generazione di artisti un po’ pigri…

Quindi, quali sono le condizioni perché un musicista italiano possa lavorare e vivere in Francia?

Ci vuole del tempo, ti devi far vedere, essere molto attivo… anche per uno come me, che una storia professionale ce l’ha, in Belgio è stato più facile coinvolgere dei musicisti di livello, dei professionisti, il mio curriculum è stato sufficiente per destare il loro interesse. In Francia, invece, non ho avuto grandi risultati. Non è un paese che consiglierei.
In Olanda è tutt’altra storia e non a caso ci sono diversi miei ex-allievi del St. Louis College di Roma che si sono diplomati al conservatorio e sono lì e suonano sei giorni a settimana, anche nei festival, musica originale… 

La musica originale secondo me è un po’ la cartina al tornasole che indica se hai la necessità di guadagnare ogni sera i tuoi 50 euro in qualsiasi modo o se invece ti senti rilassato perché sai che degli introiti comunque li hai in quanto musicista… ti potrei fare tanti esempi. 
Per me l’Olanda è il massimo in Europa, forse assieme alla Norvegia perché lì il livello di welfare è ancora più alto…

Andrea Moneta

Alla stessa generazione di Lorenzo appartiene Andrea Moneta, architetto e musicista. Quando la facoltà romana di Architettura, dopo anni di lavoro praticamente gratuito, gli chiude le porte in faccia, si dedica ai concorsi. Dopo aver vinto sulla carta un posto nella scuola pubblica, avendo davanti almeno un anno di attesa spedisce il curriculum a varie università britanniche.

A sorpresa arriva la risposta per una sostituzione all’università di Nottingham che, da annuale, si trasforma presto in incarico permanente come direttore del corso di scenografia.
È un bel colpo, ma anche qui è bene sottolineare delle cose…

In realtà, qui di lavori “permanenti” non ce ne sono. Rimangono “a tempo indeterminato” finché la cosa funziona, ma puoi essere cacciato in qualsiasi momento. In Inghilterra qualsiasi lavoro non è garantito del tutto. D’altro canto, è facile trovare lavoro, se ti licenziano trovi un’alternativa. 

Qui c’è gente che si può permettere di lasciare un posto di lavoro perché non gli piace! Nel mio caso, di andare in un’altra università, ad esempio. Cosa da noi impossibile. È tutto più fluido e dinamico.

Andrea Moneta

Abituato in Italia a lavorare anche come musicista, Andrea ha competenze variegate essendo in grado di offrire le sue prestazioni come esperto batterista o come bassista.
Come solista, invece, si esibisce con lo Stick, suonando melodia e accompagnamento sulla tastiera con le due mani.

Nottingham ha un’area urbana che accoglie più di 800.000 persone, due università e circa 70.000 studenti. È una città dalla tradizione musicale legata all’hard rock: in questa zona sono nati Ian Paice, batterista dei Deep Purple, e il cantante degli Iron Maiden, Bruce Dickinson…

Qui vanno forte hard e alternative rock, ma ho amici che propongono la loro musica da songwriter e lavorano abbastanza in giro con varie formazioni.

Da circa due anni Andrea collabora con un musicista locale, Ryan Stevenson, dopo aver risposto all’annuncio in cui cercava un batterista per il suo progetto progressive. 

Ho registrando con lui un intero album in uscita a fine marzo e, non ci crederai, sono stato… pagato! (risate) Non solo, mi viene a prendere, le prove le facciamo in una sala – sempre a sue spese – e ha promesso di pagarmi anche di più per il prossimo lavoro… Qui, soprattutto quando una cosa diventa meno amatoriale ed entri in un contesto più professionale, il rispetto è molto diverso da quello che c’è in Italia.

Anche nel contesto universitario non si mandano gli studenti a lavorare gratis, al minimo spese pagate o magari prospettive lavorative future. C’è molta più attenzione.

Musicalmente alcune cose sono molto simili, come la paga che puoi ricevere in un pub o altro piccolo locale, però anche lì c’è più rispetto… sono difficili situazioni spiacevoli come quelle che a volte capitano in Italia, quando il gestore alla fine ti dice che la serata non è andata bene, ti fa pagare le birre, e così via.

Quindi, secondo te quali sono i vantaggi e gli svantaggi per un musicista che si trasferisce in Inghilterra? (Ammettendo che ci riesca, sarebbe da aggiungere, viste le ultime regole della Brexit…, NdR)

In generale i rapporti sono più professionali. Persino in situazioni in cui non me lo sarei aspettato. Collaborando con associazioni culturali che organizzano eventi di poesia e musica, ad esempio, vengo pagato, anche se poco. Questo perché riescono a ottenere un finanziamento per la loro attività. Anche a basso livello non si fanno cose gratis.

Due parole per concludere.
Quella dell’articolo è solo una fotografia, parziale e sicuramente incompleta, di uno scenario che appartiene ormai al passato, visto che il mondo di domani, quello del dopo-virus, dovrà fare i conti con cambiamenti ancora impossibili da prevedere.

Quel che possiamo fare individualmente è scegliere l’atteggiamento con cui affrontare le cose.
Un augurio di cuore ai protagonisti dell’articolo e a tutti coloro che nei prossimi mesi si troveranno a confronto con una situazione probabilmente difficile.
Scriveteci le vostre storie!