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Se ti ascoltano in streaming quanto guadagni?

Nell'era della società dell'informazione, realtà come YouTube, Apple Music, Spotify e simili, rappresentano i maggiori canali di sfruttamento di opere musicali. Da una parte, gli artisti, sia i più che i meno conosciuti, mettono a disposizione su più piattaforme possibili le loro opere.

Nell’era della società dell’informazione, realtà come YouTube, Apple Music, Spotify e simili, rappresentano i maggiori canali di sfruttamento di opere musicali. Da una parte, gli artisti, sia i più che i meno conosciuti, mettono a disposizione su più piattaforme possibili le loro opere.

Da un’altra parte, gli utenti, sia i più che i meno giovani, abbandonano progressivamente i supporti fisici per ascoltare musica in digitale su siti web di download e audiostreaming.
Per darvi qualche numero, da recenti rilievi effettuati da Gfk Retail Technology Italia, lo streaming rappresenta oggi nel sistema di misurazione dei consumi il 51% del segmento digitale con un’importante crescita negli ultimi due anni (+30% nel 2016 con un +40% in incremento rispetto al 2015 per i ricavi derivati dagli abbonamenti).
Un fenomeno, quello dello streaming, dove le visualizzazioni (o ascolti) sono indice di popolarità e fonte di introiti. 

Ci si chiede dunque: chi e quanto guadagna dagli ascolti o dalle visualizzazioni effettuate in rete? Sono cifre che possono definirsi congrue rispetto ai ricavi generati dagli stessi siti internet che mettono a disposizione le loro opere?

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Al centro di queste tematiche vi è il tanto discusso value gap ossia la discrepanza che vi è tra gli introiti generati dai contenuti messi a disposizione dalle piattaforme digitali, e quanto effettivamente riscosso dai titolari dei diritti sulle opere. È bene precisare che le politiche di ripartizione di detti utili non vengono adottate in maniera uniforme.
Se YouTube paga approssimativamente 1 $ ogni 1000 visualizzazioni, servizi come Spotify e Apple Music pagano, per lo stesso numero, cifre quasi 7 volte superiori.  A ciò si aggiunge che il sito web di video streaming più famoso al mondo pare essere di gran lunga più gettonato rispetto alle altre due menzionate piattaforme. 

È di pochi giorni fa un articolo del Washington Post dove si rileva che YouTube copre, da solo, il 25% della musica messa a disposizione in streaming.

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Photo by HamzairfanCC BY-SA 4.0

Secondo uno studio commissionato dalla stessa società, il value gap, in realtà, è un problema che non esiste. Invero, si è sostenuto che nel momento in cui YouTube dovesse smettere di fornire accesso a opere e contenuti protetti, la maggior parte dell’utenza (85%) migrerebbe verso servizi di bassa lega o addirittura illegali, generando così danni ingenti per la categoria degli autori.

Secondo altre voci, il value gap esiste ed è un problema serio. YouTube ha generato, solo negli States, un vuoto di ben 650 milioni di dollari. Migliaia di artisti hanno espresso il loro dissenso negli ultimi anni.
Di recente AEPO-ARTIS, EuroFIA, FIM e IAO, entità che rappresentano più di 500.000 artisti tra musicisti, cantanti, attori e ballerini in Europa, hanno lanciato e stanno portando avanti la campagna Fair Internet for Performers; chiedono alla Commissione Europea, al Parlamento e al Consiglio la predisposizione di norme che garantiscano agli artisti, interpreti ed esecutori di ricevere un’equa quota dai ricavi delle utilizzazioni online, sulla base di un meccanismo di “equo compenso“, in particolare relativamente allo sfruttamento delle opere in streaming on demand rispetto al quale oggi non percepiscono nulla.

In occasione di una dichiarazione congiunta tra Francia e Italia, è stato ribadito quanto fosse importante l’equa ripartizione del valore tra i creatori, e gli intermediari che caricano in modo massivo contenuti protetti. Il problema è stato ufficialmente affrontato anche dalla Commissione Europea in vista di una prossima Direttiva sul copyright.

Quanto sia importante valorizzare a pieno la filiera della creatività l’ha sottolineato pure l’ultimo studio di Italia Creativa da dove è emerso che nel 2015 l’Industria della Cultura e della Creatività italiana ha registrato un valore economico complessivo di 47,9 miliardi di euro, pari al 2,96% del PIL, con un tasso di crescita rispetto all’anno precedente del 2,4% dei ricavi diretti (+951 milioni di euro).
In tutto questo, il settore che è cresciuto maggiormente in termini di valori economici diretti è quello della musica (in aumento del 10% rispetto al 2014). Orbene, è pacifico che per valorizzare ancora meglio quanto prodotto e quanto potenzialmente potrà prodursi, sarà importantissimo porre delle regole precise allo sfruttamento delle opere online e stabilire dei sistemi di compenso per lo sfruttamento delle opere online che siano equi e largamente condivisi.

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YouTube si o YouTube no? Il value gap esiste? Chi sono i soggetti più indicati a porvi rimedio?

Rispondere a questi interrogativi non è affatto semplice e probabilmente una posizione che possa mettere d’accordo tutti non esiste. Sicuramente YouTube ha dato la possibilità a chiunque abbia un’idea, un brano e una registrazione di entrare in un circuito internazionale a costo zero. Un artista, oggi, ha la possibilità di diffondere su scala worldwide le proprie opere a costi irrisori, e se vede di cattivo occhio la possibilità dell’utente di poter ascoltare i suoi brani sopportando, nel peggiore dei casi, lo spot pubblicitario tra un brano e l’altro, può comunque decidere di starne fuori.  

È innegabile, come abbiamo visto, che lo sfruttamento delle opere si sta sempre più digitalizzando e che lo streaming rappresenta uno dei maggiori canali di fruizione di contenuti musicali. Ciò significa che caricare musica su piattaforme di audiostreaming è, per chiunque voglia entrare nel mercato musicale, una scelta a rime obbligate. O vai dentro o resti fuori. È necessario, dunque, prendere i giusti accorgimenti e stabilire delle regole che siano adottate a livello internazionale e che abbiano come destinatari non una parte ma tutte le piattaforme di audiostreaming (il rapporto di 1 a 7 tra YouTube e Spotify è davvero sconcertante).

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Come sempre, accade che la tecnologia corre a velocità molto più alte rispetto al legislatore. Questo fenomeno è inevitabile. Storicamente, certe minacce sono state sottovalutate o affrontate con troppa flemma. Prendendo ad esempio la pirateria, Napster ha dato il “la” a tutto un insieme di realtà che hanno davvero messo in crisi l’industria discografica.
Le majors hanno dapprima sottovalutato il problema e dallo scoppio del fenomeno all’introduzione di un sistema di enforcement sono passati troppi anni. Ciononostante, la pirateria non accenna ad arrestarsi e i risultati di questo sistema sono stati abbastanza deludenti. 

Secondo l’AgCom l’incidenza complessiva di essa sia aggira attorno al 40% del consumo, con un danno in termini di fatturato pari a 686 milioni di euro per il settore audiovisivo e a 1 miliardo e 200 milioni per l’intera economia nazionale.
Ad oggi la risposta più incisiva è stata data, più che dalle leggi, dalla fondazione di piattaforme di streaming legali come Spotify che danno da un lato la possibilità all’utente di ascoltare musica in alta qualità spendendo poco, dall’altro la possibilità all’artista di vedersi remunerati gli sforzi creativi.

Una campagna che tanto merita di essere sostenuta è la sopra citata Fair Internet for Performers, a cui vi invito fortemente ad aderire. In conclusione, vi segnaliamo che è in atto in seno alle istituzioni europee la creazione di un Digital Single Market che dovrebbe, ci auguriamo, porre una serie di norme a tutela dei titolari di diritti su opere protette.

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