In un tempo che sfida la memoria storica, in una terra remota dove il paesaggio è modellato dal vento e dagli eucalipti, uno strumento musicale nasce in modo del tutto naturale, senza che l’uomo debba costruirlo. Il didgeridoo all’inizio – e ancora oggi nelle tribù australiane – non viene fabbricato: viene scoperto, nel senso più letterale del termine.
Un dono delle formiche: la costruzione naturale
Nel nord dell’Australia, l’ambiente è regno incontrastato delle termiti, milioni di minuscoli insetti che scavano con pazienza le viscere degli eucalipti, svuotandone il midollo ma lasciando in vita la pianta.
Questo processo naturale crea dei tronchi cavi, che gli uomini delle tribù locali riconoscono da un suono cavernoso: basta percuotere il tronco e ascoltare. Quando le condizioni sono ideali – lunghezza, diametro, risonanza – il tronco viene tagliato e ripulito.
Il risultato? Uno strumento musicale completo, creato senza l’intervento diretto dell’uomo se non per rifinirlo e decorarlo.
Secondo i custodi della tradizione, come riportato nel documentario The Men of the Fifth World, “il didgeridoo non è costruito dall’uomo. Noi lo cerchiamo, lo puliamo e lo decoriamo. Sono le formiche a farlo”.
Un’identità fluida: nomi e territori
La parola “didgeridoo” è in realtà un’invenzione occidentale, probabilmente una trascrizione onomatopeica. In Australia, ogni area linguistica ha un nome proprio per lo strumento: Yidaki nel nord-est dell’Arnhem Land, Mago nel versante occidentale. Non tutta l’Australia conosce o suona questo strumento, come del resto non tutti gli italiani suonano il mandolino.
Gli stili musicali si riflettono anche nella costruzione: il Mago, più cilindrico, produce un suono brillante e meno aggressivo. Lo Yidaki, più conico, ha una risposta più secca e profonda. Ogni variazione risponde a precise esigenze culturali, spirituali o ambientali.
Tecnica e spiritualità
Il didgeridoo è uno strumento a fiato dal funzionamento apparentemente semplice ma che richiede abilità avanzate. La tecnica fondamentale è la respirazione circolare, che consente al suono di fluire senza interruzioni. Accanto a questa, esistono tecniche come il droning, il tongue slap e l’overblow, con cui il suonatore può generare variazioni, armonici, percussioni vocali.
Suonare il didgeridoo non è solo un esercizio tecnico: implica ascolto, connessione con lo strumento, e spesso anche una forma di meditazione sonora. Non a caso, nella cultura aborigena, il suono del didgeridoo era usato in contesti rituali, curativi e narrativi, e ancora oggi molti ne sottolineano l’uso terapeutico grazie alla vibrazione profonda che influisce sul corpo e sulla mente.
Le decorazioni tradizionali, come il Rark, non sono meri ornamenti: sono linguaggi visivi che raccontano storie, come una mappa della catena alimentare o dell’ordine cosmico. Ogni linea, punto, bruciatura o incisione ha un significato preciso. Questa stratificazione di arte, cultura e spiritualità fa del didgeridoo un oggetto vivo, narrativo.
La modernità e i nuovi materiali
Oggi il didgeridoo vive una seconda vita. Oltre alle versioni tradizionali in eucalipto, si costruiscono strumenti in vetroresina, polimero, ceramica, legno lavorato con CNC e persino in bambù. La ricerca acustica si combina con nuove tecniche artigianali, consentendo la creazione di strumenti entry level per principianti, o di versioni modulari che permettono di variare la tonalità.
Costruttori in Europa e America – come quelli citati nelle raccolte di strumenti dell’Associazione Arte e Tradizioni – hanno avviato una produzione artigianale e sostenibile, in parte anche per esigenze economiche: l’eucalipto australiano non è facilmente reperibile, e non è economico.
Altri mondi, strumenti simili
Ma l’Australia non è l’unico luogo in cui strumenti simili hanno preso forma. Nei Carpazi, ad esempio, esiste il bucium, un lungo corno ligneo usato da pastori e in contesti cerimoniali. Costruito in abete o frassino, era usato originariamente per segnalazioni in montagna, una funzione più comunicativa che musicale.
In Ucraina troviamo la trembita, utilizzata dai Gutsuly per annunciare eventi come nascite o lutti. Anche qui, la costruzione prevede uno svuotamento del legno – spesso colpito da un fulmine – e un successivo rivestimento con corteccia di betulla. Il suono è simile a quello di una tromba.
Sebbene nessun contatto storico colleghi queste popolazioni a quelle australiane, è affascinante osservare come strumenti affini come forme e spesso recuperati direttamente da madre natura, emergano in culture lontane tra loro.
È la dimostrazione di ciò che, primitivo e profondo, appartiente a un linguaggio universale, ancestrale, condiviso.
Oggi e domani
Il didgeridoo continua a evolvere. Lo si ascolta nei concerti di world music, nella musica elettronica, nei laboratori di musicoterapia, nei workshop per bambini. Nonostante sia uno strumento monodico – produce una sola nota fondamentale – è capace di generare mondi sonori complessi e suggestivi.
Forse è proprio questa sua semplicità strutturale, unita alla complessità espressiva, a renderlo uno strumento così affascinante e trasversale. Dal ventre degli eucalipti australiani alle vette dei Carpazi, il fiato dell’uomo e il legno della terra trovano da sempre un modo per incontrarsi.
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