È senz’altro uno dei chitarristi più famosi nel mondo, sull’acustica ha pochi rivali, ma anche sull’elettrica è un vero maestro; da dove è uscito fuori un fuoriclasse così? Ce lo spiegava lui stesso qualche anno fa su Chitarre in una bella intervista di Marco Manusso.

Era l’anno in cui Santana rilanciava la sua carriera con la fortunata operazione commerciale intitolata Supernatural e i Red Hot Chili Pepper pubblicavano un nuovo album dal titolo esplicito come Californication. Nella cerimonia di chiusura delle olimpiadi di Sydney veniva trasmessa in tutto il mondo la performance dei due fratelli Emmanuel, Tommy e Phil, due glorie locali, musicisti molto famosi in Australia, ma nel caso di Tommy anche qualcosa di più. Appena un anno prima il grande Chet Atkins, uno dei padri riconosciuti della chitarra fingerstyle e produttore storico di artisti notissimi, lo aveva insignito del titolo Certified Guitar Player, un riconoscimento condiviso con solo altri quattro artisti, definendolo “uno dei più grandi chitarristi che abbia mai visto”. La sua fama, già larga nell’ambiente delle sei corde acustiche, iniziava a dilagare. Come session-man si era dato da fare con personaggi del calibro di George Martin, Tina Turner, Stevie Wonder, Eric Clapton, Michael Bolton, John Denver, Joan Armatrading, Albert Lee, Larry Carlton, Hank Marvin, Bill Wyman.
La lista dei concerti che suonava in tutto il mondo avrebbe fatto rabbrividere il più dinamico dei musicisti, ma la sua immagine ironica e irridente testimoniava la capacità di affrontare ogni tipo di palco senza battere ciglio. E con quale energia…
Se oggi la chitarra acustica ha riacquistato fascino presso tanti musicisti o aspiranti tali, parte del merito va sicuramente a Tommy Emmanuel e alla sua immagine di performer dalla tecnica straordinaria e dallo humour inconfondibile.

È con queste premesse che Marco Manusso nel 2000 si apprestava a fargli una serie di domande per Chitarre, in occasione di un vasto servizio sugli orizzonti della chitarra acustica.
Gli inizi da… bassista e la scoperta di Chet Atkins
È stata mia madre a insegnarmi i primi accordi sullo strumento, e così l’accompagnavo mentre suonava le classiche canzoni hawaiiane. Dopo un po’ di tempo abbiamo formato un quartetto: mio fratello maggiore suonava la batteria, Phil, l’altro mio fratello maggiore, la chitarra solista, mia sorella la chitarra hawaiiana e io – a sei anni – suonavo la chitarra d’accompagnamento e il basso… contemporaneamente… [prende la chitarra e accenna “Apache” degli Shadows], cioè, quando suonavamo una canzone, io suonavo la ritmica sottolineando i bassi. In realtà all’epoca non sapevo nemmeno come fosse fatto un basso elettrico.
Suonavamo brani degli Shadows, dei Ventures, Duane Eddy e, in seguito, alla radio ho scoperto Chet Atkins… sono impazzito e ho cominciato a imparare il suo stile: per un ragazzino non era una cosa molto facile. Suonavo tutto quello che sentivo alla radio o al juke box per aumentare il repertorio del quartetto. Abbiamo girato per tutta l’Australia fino al 1966 quando mio padre purtroppo morì. Aveva venduto tutto per comprare due macchine e una tenda e girare con il nostro spettacolo… eravamo una specie di circo ed era un’attrazione vedere dei ragazzini così giovani suonare… io all’epoca avevo solo dieci anni e così ho imparato a suonare per vivere… la stessa cosa che continuo a fare oggi.

L’acustica o l’elettrica? Basta alzare il volume
Agli inizi era principalmente l’elettrica; più tardi, quasi intorno ai vent’anni, sono passato all’acustica, ho comprato un’Ovation e ho cominciato a suonare brani di Neil Diamond. Ma all’epoca suonavo qualsiasi cosa: elettrica, acustica, banjo, pedal steel… riparavo le gomme bucate [ride], perché era la cosa più importante per arrivare alla serata successiva. È stato bello quel periodo: dovevi essere ‘tosto’ per sopravvivere a quella vita e soprattutto dovevi catturare il pubblico, serata dopo serata, e penso che questo mi abbia insegnato molto. Devi sapere come attirare l’attenzione su di te. Oggi la gente viene a sentirmi quando suono, ma un tempo, quando mi esibivo nei club o negli hotel, a nessuno importava assolutamente niente di chi stava sul palcoscenico… dovevi catturali con la forza. Questo è il motivo per cui mio fratello Phil suona a un volume così alto [ride]!
Quelli che suonano a basso volume in un locale rumoroso è come se chiedessero di non essere ascoltati.

Il repertorio adatto al pubblico
Bisogna capire come mettere insieme il repertorio della serata per catturare l’attenzione del pubblico. È importante suonare le proprie canzoni, ma anche suonare quelle degli altri con il tuo stile. Quando suoni le canzoni che hai scritto e che quindi il pubblico non conosce, devi essere molto tranquillo per affrontare la platea. Mi ci sono voluti anni e anni di lavoro in sala di incisione prima di sentirmi abbastanza sicuro da suonare cose scritte da me per tre ore davanti a un pubblico, invece che appoggiarmi ad un repertorio di altri. Spesso introduco dei brani conosciuti come ad esempio canzoni dei Beatles che sembrano scritte apposta per la chitarra – o di James Taylor…
Il groove sopra ogni cosa
È il ‘groove’ la cosa più importante, altrimenti diventa tutto… meccanico. Quando suono ad esempio “Blue Moon” [ecco che riprende la chitarra e impartisce un’altra lezione… gratuita: oggi è il nostro giorno fortunato!!!] cerco di riprodurre il suono di una piccola band, dal contrabbasso alla batteria con le spazzole: solo così trovo che sia emozionante, altrimenti dopo due battute hai già capito come sarà tutta la canzone.

L’incontro e l’amicizia con il grande Chet negli anni ’80…
Un mio amico di Melbourne sapeva che ero un grande ammiratore di Atkins e così ha registrato un nastro mentre suonavo a casa sua e lo ha mandato, senza dirmelo, a Chet Atkins. Dopo un po’, mi arriva una lettera direttamente da… Chet Atkins che diceva, “ho avuto il tuo nastro, mi piace molto e quando vieni a Nashville passa a trovarmi”.
Subito mi sono domandato, “quale nastro?” Poi il mio amico mi ha spiegato tutto e quando sono riuscito a calmarmi ho pensato, “devo andare a Nashville”. Ho investito in quel viaggio tutti i miei risparmi e mi sono ritrovato nell’ufficio di Chet, dove quel giorno c’era anche il grande Lenny Breau… Incredibile: abbiamo suonato insieme per ore e ore, forse tutto il giorno, e da quel momento siamo rimasti sempre in contatto.
Tredici anni dopo, nel ’93, mentre stavo registrando il mio album The Journey, l’ho chiamato e gli ho chiesto se gli faceva piacere suonare nel disco: lui ha accettato e così sono volato a Nashville per registrare un brano assieme. È stato come l’incontro tra padre e figlio.
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