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Gioie e dolori della prima band

Se hai sedici anni e suoni la chitarra da quel tempo che basta per riuscire ad andare oltre i primi accordi o aver addirittura imparato l’agognata scala pentatonica, se passi pomeriggi rincorrendo i dischi dei tuoi idoli con uno sfortunatissimo strumento entry level, prima o poi arriva il momento di realizzare qualco

Prendetevi una pausa, tenete dei fazzoletti al vostro fianco per la commozione. Navighiamo nei ricordi della nostra prima band…

Se hai sedici anni e suoni la chitarra da quel tempo che basta per riuscire ad andare oltre i primi accordi o aver addirittura imparato l’agognata scala pentatonica, se passi pomeriggi rincorrendo i dischi dei tuoi idoli con uno sfortunatissimo strumento entry level, prima o poi arriva il momento di realizzare qualcosa in più. 

Quando scatta la scintilla non si può resistere, il coraggio ti porta di corsa al telefono o davanti una bacheca di annunci, nella speranza di trovare qualcuno che, come te, abbia voglia di formare una band, la prima band!

Questa è una storia liberamente ispirata a fatti realmente accaduti… a molti di noi.
Tutti, prima o poi, ci siamo trovati dentro questo misterioso turbinio di emozioni, paure, paranoie di non essere all’altezza e comunque voglia irrefrenabile di calcare un palco e spedire tutti a casa con “quell’assolo…”

Animati dallo stesso desiderio ci siamo impegnati in qualche lavoretto estivo o abbiamo pregato in ginocchio i nostri genitori, promettendo magari fantasiosi, quanto improbabili, risultati scolastici di livello superiore alla propria media; tutto solo per comprare lei, la chitarra (o quale che sia il vostro strumento) esposta da sempre in vetrina, quella sei corde nuova fiammante che ci promette sogni di gloria, che sembra poter suonare da sola una volta imbracciata (ahimé non è così, ma questa è un’altra storia).

Se la fortuna ci ha assistito è rientrato nel budget anche un nuovo amplificatore, magari non il top delle valvole roventi, ma quel che basta per suonare in sala prove senza essere completamente ammutoliti dai nostri colleghi.
Almeno visivamente, sembra promettere fuoco e fiamme!
Già e adesso? Pochi eletti sin da giovanissimi non accettano la strada dell’emulazione e si buttano subito in composizioni proprie, trovando in esse la migliore panacea per il prepotente istinto musicale che li infiamma dentro. Beati loro, coraggiosi, che si cibano delle proprie idee e le offrono senza vergogna agli altri.

Tanti invece hanno una sola cosa in testa: mettersi nei panni di coloro che escono prepotentemente dalle incisioni dei dischi, fondando una propria tribute o cover band.
Nella maggior parte dei casi, e comunque faremo finta che sia così perché di queste parleremo arbitrariamente oggi, una cosiddetta “cover band anni ’70“.

Denominazione che, diciamocelo apertamente, neanche noi sappiamo bene cosa vuol dire!
Perché in realtà potremmo farlo anche riempiendo una scaletta con pezzi dei Pooh e Formula 3. Magari con gli anni ’70… della musica indo-pakistana! 

Ovviamente quello che abbiamo in testa si traduce in un grande calderone pieno di artisti che pur legati a una parola, “rock“, costituiscono quanto di più eterogeneo ci possa essere in questo genere, non tutti magari, ma in buona parte.
Su fogli stropicciati di carta, malamente chiusi nelle custodie o nelle tasche dei jeans, si stilano scalette che, composte non con logica di band e show ma solo ed esclusivamente raccogliendo alla rinfusa le proposte dei vari componenti, racchiudono pezzi e artisti che potrebbero essere padri e figli (e oramai nonni) gli uni degli altri, dalle più varie attitudini e stili. 
Trovano di solito spazio i Creeedence di “Proud Mary”, i Deep Purple di “Black Night” o “Highway Star”, i Led Zeppelin di “Whole Lotta Love” (o altro, basta che sia nei primi quattro album), il Jimi Hendrix della compilation comprata in super offerta al Mediaworld mentre si era in fila per un pacchetto di pile o un dvd, i Doors di “Break on Through” (o di “Roadhouse Blues”), e così via per poi veder spuntare qualche pezzo degli Iron Maiden, AC/DC, Van Halen, Guns… farina del sacco del chitarrista, ci mancherebbe. 

Seguono a ruota la “Superstition” proposta dal bassista, un pezzo di Bon Jovi (o “alla Bon Jovi”) proposto dal cantante e qualche pezzo sconosciutissimo e tecnicamente improponibile buttato lì dal batterista o dal tastierista… ma tanto nessuno se li fila… 

Poi, come per magia lei, immancabile, la canzone regina dello show: a scelta, “The Final Countdown” dei capellutissimi (e mai e poi mai anni ’70) Europe o “Comfortably Numb” dei Pink Floyd, solitamente se la giocano alla pari.
Il terrore serpeggia tra le sedie del locale arrivati a quel punto dello spettacolo, “non faranno mica anche Long Train Running vero?“.
La facciamo, la facciamo.
Io da spettatore spero sempre che a quel punto della scaletta ci sia un’amnesia totale sul palco. Ma vengo sistematicamente disatteso. 

A volte viene da chiedersi, leggendo vecchie scalette trovate in vecchi quaderni riposti in vecchissime custodie morbide, che diavolo di cantante avessimo ai tempi, perché a giudicare dalle scelte, minimo minimo avrebbe fatto barba e capelli a Demetrio Stratos.
In realtà, purtroppo, così non è stato.
Nella migliore delle ipotesi, il cantante ha fatto di necessità virtù e ci ha obbligati, almeno, a cambiare le tonalità dei pezzi. Nel peggiore dei casi invece ha alternato canto e sgolamento, nella completa indifferenza di tutti.

Sì perché un grosso scoglio da superare, del quale però probabilmente non ci siamo minimamente accorti al tempo, è entrare in sala prove, attaccare gli strumenti e suonare il tutto guardandosi almeno in faccia!
Lasciamo perdere il discorso dei volumi, siamo ancora fermamente convinti che “l’amplificatore arrivi a 11” (cit.).

Mediamente, mentre il cantante si è perso ad occhi chiusi nel suo mondo magico (qualcuno giura di aver addirittura sentito l’odore del misto marijuana e fango di Woodstock), il bassista e il batterista hanno ufficializzato il loro esclusivo rapporto “monostrumentale” e il chitarrista sta tentando come un disperato di centrare tutte le note dell’assolone imparato a casa (non cito volutamente e per rispetto il tastierista, a cui di solito, poveretto, viene intimato un “fai tappeto” per il 90% dei pezzi), la musica va… non si sa bene dove però. 

Alla fine si chiude, o con un gran bordello elettrificato e distorto o con il memorabile stacco di “Smoke on the Water” (versione Made in Japan) e tutti contenti.
Adrenalina e sudore, quelli li smaltiamo poi con calma.  

Siamo pronti, prima uscita, la febbre della serata ci sta salendo nelle vene, meglio passare al bancone del bar, pensiamo. In questo caso chitarrista e cantante “vincono” quasi sempre la gara d’immagine al rocker consumato.
Tralasciamo come ci siamo vestiti, che è meglio. Di solito uno prende una birra ad alta gradazione, l’altro un superalcolico liscio che non avrebbe bevuto in altre occasioni neanche con la pistola puntata alla tempia.
Il risultato è sempre lo stesso, prima dell’inizio del live uno è stordito e l’altro ha pure le corde vocali che chiedono acqua più di un pinguino all’inferno.

Malgrado tutto però, l’esibizione la portiamo a casa, perché quella montagna di amici che ci siamo tirati dietro, unico motivo per cui il gestore ci ha “regalato” una serata (a suo modo di vedere…), ha applaudito comunque, anche quando avevamo i piedi intrappolati tra i cavi col rischio di finire lunghi sulla prima fila, anche se il batterista e il chitarrista hanno iniziato due pezzi diversi o se il cantante è vocalmente decaduto a metà concerto. 

Bassista e tastierista… ma tanto loro sono sempre, fenomeno tanto puntuale quanto inspiegabile, nel punto più buio del palco. Del tastierista spuntano però sempre, minacciose, le tastiere. Si, perché ne ha portate rigorosamente due (o tre!!!), riciclando una modesta tastiera elettronica dell’anteguerra.
Non la suona mai, tanto che la polvere le ha cambiato colore, ma fa scena.

A questo punto, dopo la gloria, si smonta. No, non certo il cantante. Lui è impegnato nelle public relation(ship) con il gentil sesso. Non perché sia oggettivamente più “cool” e attraente degli altri. Semplicemente… non ha niente da smontare!
Se non è totalmente sbronzo, in questo campo fatica quanto un cacciatore allo zoo. 

La band andrà avanti per un annetto o due, poi ci lasceremo di comune accordo. Chi perché “ma la mia ragazza…“, chi perché se ne va a studiare da qualche parte, chi inizia a lavorare, chi vuole fare jazz (il bassista) e chi ha semplicemente voglia di voltare pagina musicale verso nuove esperienze (originale, cover o tribute che sia). Nonostante tutto avremo dei bei ricordi. 

Certo, più avanti rabbrividiremo alla memoria di come suonavamo “grezzi” e delle serate alle sagre di paese pagati coi tortelli al ragù; probabilmente conserveremo, nascondendolo in fondo a un cassetto, anche un cd o un nastro con la registrazione delle nostre prove (tenteremo di riascoltarle ogni tanto, spinti da grande commozione, ma ci riusciremo a fatica).
In ogni caso non rimpiangeremo niente, neanche per un attimo; comunque siano andate le cose, è stata la nostra vita.
Nella mia erano gli anni ’90 e… ci sentivamo invincibili!